giovedì 20 luglio 2017

Bronson (Bronson, 2008) di Nicolas Winding Refn

Il film è basato sulla vita del criminale Michael Gordon Peterson, definito come il "più violento prigioniero britannico vivente". Nel 1974 il diciannovenne Peterson, turbolento attaccabrighe e teppista di quartiere, decide di fare il "salto di qualità" rapinando un ufficio postale con un fucile, ma viene preso dalla polizia e condannato a sei anni. Ossessionato fin da piccolo dal miraggio di diventare un personaggio famoso inizia a tenere un atteggiamento arrogante, provocatorio e rissoso scatenando continue zuffe con gli altri prigionieri o con le guardi carcerarie. Nonostante le punizioni, l'allungamento continuo della pena (ancora oggi è in prigione) e quasi 30 anni trascorsi in isolamento, il pericoloso Peterson, che ha scelto il nome d'arte di "Bronson", non è mai cambiato. Un regista come Nicolas Winding Refn, che ha fatto dell'estetizzazione della violenza il fulcro della sua arte, non poteva non dedicare un suo film a un personaggio truce e brutale come Bronson, un uomo sospeso tra nichilismo, follia e ribellione, che ha distrutto la sua vita in nome di una insana popolarità derivata dall'uso della violenza fisica come mezzo espressivo. Questo biopic di Refn, anomalo e visionario, è una solenne apologia del gesto violento, surreale e autoreferenziale. La vita del protagonista viene scomposta in una serie di affreschi stranianti e artificiali, una sorta di palcoscenico astratto in cui sia la scenografia sia la fotografia si collegano al gesto dinamico e al contesto narrativo, creando una fusione plastica tra attore, situazione e spazio scenico. Ognuno di questi "quadri in movimento" racconta un momento esistenziale di Bronson, con una consecutio non lineare, e, al centro di tutti, c'è sempre la potenza fisica, l'ego smisurato, la follia isterica e il narcisismo psicotico del protagonista, interpretato con efficace mimetismo da Tom Hardy, che ha dovuto accrescere di molto la sua massa muscolare per il ruolo. I principali luoghi simbolici dove si svolge il film sono il teatro (che rappresenta il vezzo esibizionista di Bronson nella sua mania della fama), la strada (ovvero il contesto rude che ha fatto da palestra alla rabbia del nostro) e la cella di isolamento (sua compagna per quasi 30 anni). Muovendosi attraverso questi non-luoghi allegorici, che in realtà rappresentano stati emotivi oltre che consolidamenti della personalità, Bronson cambia, si evolve, raffina la sua filosofia del gesto violento come cervellotica stilizzazione propagandistica di sè stesso, vendendo l'anima al demone della celebrità e auto-vendendosi come un "prodotto". E' evidente che il regista simpatizza ed empatizza con questo pericoloso delinquente, cercando di astrarne la purezza ideologica, la rigida "morale" (Bronson si esprime con la violenza ma bandisce l'omicidio), il lato artistico e la folle coerenza. L'operazione, socialmente discutibile ma concettualmente interessante, è perseguita con lucido rigore e affascinante equilibrismo stilistico, dando vita ad uno dei film più complessi, acuti e visivamente brillanti dell'autore. L'esteta Refn si sovrappone provocatoriamente all'esteta Bronson, creando un cortocircuito ideologico che induce indubbie vertigini morali nello spettatore e che lo attrae e lo respinge al tempo stesso. E' un film manierista e controverso ma ha stile, carisma e personalità da vendere.

Voto:
voto: 3,5/5

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