Minneapolis,
1967: il professore di fisica Larry Gopnik, uomo mite di fede ebraica, si
ritrova improvvisamente nell’anno peggiore della sua vita per mezzo di una
incredibile sequenza di sciagure personali: la moglie Judith lo lascia perchè innamorata
di un suo collega, una serie di infamanti lettere minatorie minacciano di
compromettere la sua carriera universitaria ed un suo studente lo ricatta, dopo
aver prima tentato di corromperlo per ottenere la promozione all’esame. Disperato
e tormentato, con il fratello nullafacente che gli dorme sul divano di casa, la
figlia che gli ruba i soldi per farsi la plastica al naso, il figlio turbolento
con problemi disciplinari scolastici e la bella vicina di casa che prende il
sole nuda nel giardino, provocandogli turbamenti erotici, Gopnik si rivolge a
tre rabbini per capire i motivi delle sue disgrazie. L’opus n. 14 dei fratelli Coen è una irresistibile commedia acida che
stinge nella perfida crudeltà sociale, per ironizzare sulla loro stessa
identità ebraica con una storia ambientata nella città d’origine che affronta
il tema del caos esistenziale, proponendo come unica paradossale (non) risposta
una resa rassegnata. Dopo un tetro prologo straniante parlato in lingua yiddish
e ambientato in uno shtetl polacco del 1800, dove viene ripresa l’arcana figura
soprannaturale del dybbuk, ovvero un morto che ritorna, il film prende la forma
di una irridente tragicommedia che segue i patemi del maldestro protagonista,
ricalcando le bibliche peripezie di Giobbe. La domanda, di natura filosofico
esistenziale religioso, che Gopnik si pone di continuo (esattamente come
Giobbe) è il motivo di tanto male subito visto che lui è sempre stato un uomo
serio, corretto e posato che non ha mai compiuto cattive azioni. I registi, con
sottile ironia caustica, lasciano trasparire il dubbio che il vero peccato
capitale di Gopnik sia proprio l’accidia, la mancanza di decisione e, quindi,
di azione rispetto agli eventi della vita. Questo film maturo e coeso,
registicamente sopraffino, geometrico nella sua precisione narrativa e sontuoso
nella confezione tecnica, con la bella fotografia luminosa di Roger Deakins, si
avvale di un cast di tutti ebrei, tra cui lo splendido protagonista Michael
Stuhlbarg, più famoso in teatro che al cinema. Ispirandosi, tra la satira
beffarda e il nichilismo disincantato, agli ambienti scolastici, familiari e
religiosi in cui sono cresciuti, i due autori si divertono a prendere in giro persino
i fondamenti religiosi dell’ebraismo (il rabbino illuminato che dovrebbe avere
tutte le risposte), alla stregua di quanto già fatto da Woody Allen in diverse
sue opere. In tal senso il grottesco finale del film (che ovviamente non
sveliamo) è addirittura esilarante nella sua stralunata impudenza. Inutile dire
che questa pellicola mordace, amara e intelligente è da non perdere, come quasi
tutti i film dei Coen.
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