Nell’America
della Grande Depressione economica, John Dillinger, scaltro e imprendibile rapinatore
di banche, diventa una sorta di eroe popolare, il simbolo di un ribelle che
sfida il sistema, ruba ai ricchi, rispetta i compagni e si prende con la forza
quello che i potenti hanno tolto al popolo, affamando il paese per mezzo di
disastrose politiche finanziarie. Il suo carisma, il suo fascino, la sua
capacità di beffare la giustizia e di evadere da ogni prigione lo rendono
un’icona mediatica, mandando su tutte le furie il capo della polizia, J. Edgar
Hoover, che lo dichiara nemico pubblico numero uno e gli aizza contro il suo
agente migliore, l’indomito Melvin Purvis, detective dal grande fiuto
investigativo e infallibile nell’uso delle armi da fuoco. Hoover mette a disposizione del suo uomo ogni mezzo e risorsa possibile pur di raggiungere il
suo scopo, eliminare Dillinger e sfruttare la pubblicità favorevole che ne
sarebbe derivata per scopi politici, trasformando il suo Bureau nel dipartimento di polizia nazionale (l’attuale FBI).
Questa anomala biografia gangsteristica di Michael Mann è l’ennesima (e anche la
migliore) pellicola dedicata al leggendario John Dillinger, il rapinatore di
banche più famoso d’America, che è già comparso in almeno 15 film, sia come
protagonista che non. L’opera racconta gli ultimi 13 mesi di vita di Dillinger,
avvalendosi di una messa in scena straordinaria che garantisce un impatto
estetico potentissimo. Tra classicità e innovazione il grande regista concilia
il suo uso della camera digitale con le ambientazioni da pellicola d’epoca,
scenograficamente ricostruite con minuziosa perfezione in ogni minimo
dettaglio, grazie alla bella fotografia “sporca” del nostro Dante Spinotti, che
garantisce alle immagini uno snervante e crudo realismo. Epico nella resa
visiva, teso nel ritmo e barocco nella rappresentazione storica, questa grande
epopea criminale è modulata sul conflitto tra il potere, che opera per
mantenere lo status quo, e un ribelle
anarchico che infrange le regole, si fa beffe del sistema e riesce a toccare i
cuori delle donne e della gente, diventando un segnale di speranza per il
futuro in un’epoca economicamente disastrosa. Se l’esito finale dello scontro è
scontato per l’evidente squilibrio delle forze in campo, il mito di Dillinger
riesce a smuovere energie insospettabili, facendo leva sulla forza dell’utopia
da opporre alla frustrazione quotidiana, e, in tal senso, il film di Mann
spiega perfettamente perchè questo fuorilegge riuscì a divenire un simbolo (e
non solo un nemico) pubblico, un vendicatore romantico capace di accendere gli
animi di molti reietti disperati. Con notevole eleganza e senza mai scadere nel
sentimentalismo, il regista offre molto spazio anche alla storia d’amore tra il
bandito e la bella Billie Frechette, che viene letteralmente “rapita” dalla
personalità dell’uomo. In grande spolvero il cast con interpretazioni
eccellenti nei ruoli principali: Johnny Depp, all’apice della sua carriera di
attore, ci regala un Dillinger secco, scattante e tagliente, capace anche di
lavorare per sottrazione per tratteggiare la complessa psicologia del
personaggio, con una sapiente stilizzazione che combina la presenza scenica con
i tormenti interiori. Christian Bale è perfetto nei panni del granitico Melvin
Purvis, elegante e spietato, inarrestabile nell’azione violenta, una sorta di
“robocop” ante litteram (memorabile
la sequenza di presentazione del personaggio con la battuta di caccia agli
uomini della banda di Dillinger). Marion Cotillard ha il giusto fascino
sofisticato e la radiosa luminosità espressiva per dar vita ad una intensa Billie
Frechette, che non sfigura al fianco di Depp. Completano il ricco cast Jason
Clarke, Channing Tatum, Billy Crudup, Leelee Sobieski e Giovanni Ribisi. Il
grande lavoro di sperimentazione tecnica sulle immagini di Mann fa un ulteriore
passo in avanti con questo film, trasformando un’opera classica per spirito,
atmosfere e costruzione, in un prodotto esteticamente moderno dalla possente
resa espressiva, che però guarda al grande cinema americano del passato. Ed è
proprio in questo corto circuito concettuale che risiede il lampo di genio, lo
scarto in avanti, la consacrazione dell’immagine come dinamico elemento
stilizzato che si fa racconto, romanzo, epos.
Clamorosamente snobbato agli Oscar 2010, il film avrebbe sicuramente meritato numerose
nomination, tra cui quella (sacrosanta) alla fotografia di Dante Spinotti.
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