martedì 18 luglio 2017

Nemico pubblico - Public Enemies (Public Enemies, 2009) di Michael Mann

Nell’America della Grande Depressione economica, John Dillinger, scaltro e imprendibile rapinatore di banche, diventa una sorta di eroe popolare, il simbolo di un ribelle che sfida il sistema, ruba ai ricchi, rispetta i compagni e si prende con la forza quello che i potenti hanno tolto al popolo, affamando il paese per mezzo di disastrose politiche finanziarie. Il suo carisma, il suo fascino, la sua capacità di beffare la giustizia e di evadere da ogni prigione lo rendono un’icona mediatica, mandando su tutte le furie il capo della polizia, J. Edgar Hoover, che lo dichiara nemico pubblico numero uno e gli aizza contro il suo agente migliore, l’indomito Melvin Purvis, detective dal grande fiuto investigativo e infallibile nell’uso delle armi da fuoco. Hoover mette a disposizione del suo uomo ogni mezzo e risorsa possibile pur di raggiungere il suo scopo, eliminare Dillinger e sfruttare la pubblicità favorevole che ne sarebbe derivata per scopi politici, trasformando il suo Bureau nel dipartimento di polizia nazionale (l’attuale FBI). Questa anomala biografia gangsteristica di Michael Mann è l’ennesima (e anche la migliore) pellicola dedicata al leggendario John Dillinger, il rapinatore di banche più famoso d’America, che è già comparso in almeno 15 film, sia come protagonista che non. L’opera racconta gli ultimi 13 mesi di vita di Dillinger, avvalendosi di una messa in scena straordinaria che garantisce un impatto estetico potentissimo. Tra classicità e innovazione il grande regista concilia il suo uso della camera digitale con le ambientazioni da pellicola d’epoca, scenograficamente ricostruite con minuziosa perfezione in ogni minimo dettaglio, grazie alla bella fotografia “sporca” del nostro Dante Spinotti, che garantisce alle immagini uno snervante e crudo realismo. Epico nella resa visiva, teso nel ritmo e barocco nella rappresentazione storica, questa grande epopea criminale è modulata sul conflitto tra il potere, che opera per mantenere lo status quo, e un ribelle anarchico che infrange le regole, si fa beffe del sistema e riesce a toccare i cuori delle donne e della gente, diventando un segnale di speranza per il futuro in un’epoca economicamente disastrosa. Se l’esito finale dello scontro è scontato per l’evidente squilibrio delle forze in campo, il mito di Dillinger riesce a smuovere energie insospettabili, facendo leva sulla forza dell’utopia da opporre alla frustrazione quotidiana, e, in tal senso, il film di Mann spiega perfettamente perchè questo fuorilegge riuscì a divenire un simbolo (e non solo un nemico) pubblico, un vendicatore romantico capace di accendere gli animi di molti reietti disperati. Con notevole eleganza e senza mai scadere nel sentimentalismo, il regista offre molto spazio anche alla storia d’amore tra il bandito e la bella Billie Frechette, che viene letteralmente “rapita” dalla personalità dell’uomo. In grande spolvero il cast con interpretazioni eccellenti nei ruoli principali: Johnny Depp, all’apice della sua carriera di attore, ci regala un Dillinger secco, scattante e tagliente, capace anche di lavorare per sottrazione per tratteggiare la complessa psicologia del personaggio, con una sapiente stilizzazione che combina la presenza scenica con i tormenti interiori. Christian Bale è perfetto nei panni del granitico Melvin Purvis, elegante e spietato, inarrestabile nell’azione violenta, una sorta di “robocop” ante litteram (memorabile la sequenza di presentazione del personaggio con la battuta di caccia agli uomini della banda di Dillinger). Marion Cotillard ha il giusto fascino sofisticato e la radiosa luminosità espressiva per dar vita ad una intensa Billie Frechette, che non sfigura al fianco di Depp. Completano il ricco cast Jason Clarke, Channing Tatum, Billy Crudup, Leelee Sobieski e Giovanni Ribisi. Il grande lavoro di sperimentazione tecnica sulle immagini di Mann fa un ulteriore passo in avanti con questo film, trasformando un’opera classica per spirito, atmosfere e costruzione, in un prodotto esteticamente moderno dalla possente resa espressiva, che però guarda al grande cinema americano del passato. Ed è proprio in questo corto circuito concettuale che risiede il lampo di genio, lo scarto in avanti, la consacrazione dell’immagine come dinamico elemento stilizzato che si fa racconto, romanzo, epos. Clamorosamente snobbato agli Oscar 2010, il film avrebbe sicuramente meritato numerose nomination, tra cui quella (sacrosanta) alla fotografia di Dante Spinotti.

Voto:
voto: 4/5

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