Don
Johnston, single convinto e playboy impenitente, è stato appena lasciato dalla
sua ultima fiamma, Sherry, e ritorna alla quiete solitaria che tanto gli piace.
Ma l’arrivo di una strana lettera rosa, da parte di una ex amante anonima, gli
scombina la vita: la misteriosa donna sostiene infatti che Don ha un figlio
diciannovenne che lui non conosce e che adesso si è messo sulle sue tracce.
Incredulo e turbato, il nostro viene spinto dal suo amico Winston, sedicente
investigatore privato, a indagare sulla cosa. Facendo mente locale e un po’ di
conti, Don parte alla ricerca delle quattro donne che potrebbero aver scritto
la lettera. Dramma comico intimista e riflessivo del talentuoso Jim Jarmusch,
regista fieramente indipendente e lontano dagli stereotipi di Hollywood. Tra
delicate suggestioni ellittiche ed una cura maniacale dei dettagli che
diventano pregnanti, spesso sostituendosi ai dialoghi, l’autore mette in scena
un malinconico viaggio attraverso un’America diversa e “invisibile”, per
tracciare una lucida riflessione sulla solitudine, un elogio del silenzio e la
presa d’atto che, tra passato e futuro, conta soltanto il presente. E’ un film
semplice, calmo e lineare, modellato sulla recitazione laconica e minimale del
protagonista Bill Murray, a cui il regista erige idealmente un “monumento”
cinematografico concedendogli tutto lo spazio scenico possibile e sovrapponendo
lo stile della pellicola alla sua indolente maschera tragicomica, fatta di
silenzi impassibili, di espressioni nostalgiche, di sguardi perfidi. Ma, non di
meno, Jarmusch si affida al rosa (colore onnipresente in quasi ogni scena) per
erigere una simbolica passerella dove far sfilare tutte le donne di Don, tutte
profondamente diverse tra loro e tutte accarezzate con adorante ammirazione
dallo sguardo dell’autore. Da citare, in tal senso, le buone prove recitative
di Sharon Stone, Jessica Lange, Tilda Swinton e Frances Conroy, senza
dimenticare Julie Delpy, Chloë Sevigny e Alexis Dziena, che completano il cast
insieme a Jeffrey Wright. Tra sfumata ironia e dolente sarcasmo, l’opera lavora
abilmente per sottrazione di emozioni (e di parole), dando ampio risalto ai
piccoli particolari scenici, agli ambienti esterni, allo spazio circostante che
sembra quasi “muoversi” intorno agli attori (rendendo invisibile il regista),
per realizzare un puzzle di immagini che sappia raccontare un’altra faccia
dell’America. Quella che tanto piace all’autore. La pellicola fu premiata al
Festival di Cannes con il Gran Premio Speciale della Giuria.
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