martedì 18 luglio 2017

Alì (Alì, 2001) di Michael Mann

Dieci anni della vita di quello che è generalmente considerato il più grande pugile di tutti i tempi, nonchè uno dei più celebri campioni della storia dello sport in generale: Cassius Marcellus Clay, poi diventato Cassius X e infine Muhammad Alì, dopo la sua conversione alla religione islamica. Dalla conquista del titolo mondiale dei pesi massimi contro Sonny Liston (nel 1964) alla sua battaglia per i diritti civili degli afroamericani, dall’adesione all’islamismo alla disputa contro lo stato per il suo rifiuto del servizio militare, fino al glorioso ritorno sul ring nel 1974 a Kinshasa, nel cuore dell’Africa nera, nel leggendario match contro George Foreman (passato alla storia come “The Rumble in the Jungle”), in cui Alì riuscì nell’impresa di riconquistare il titolo mondiale dei massimi. Non è semplicemente una biografia sulla vita di un divo dello sport questo ottavo lungometraggio di Michael Mann. E’ un film epico nella sua interezza, un potente dramma sociale, sportivo, esistenziale e politico di dimensioni monumentali sia per la sontuosa impaginazione grafica sia per l’alta portata concettuale. Ancora una volta il grande autore porta in scena un ribelle, un personaggio scomodo che usa il suo talento e il suo carisma per opporsi al sistema e accendere l’immaginario popolare. In una pellicola altamente emozionale, forte di un montaggio formidabile, lo sguardo registico spazia tra l’uomo Alì (le sue asperità, i suoi ideali e i suoi tormenti) e le grandi imprese del pugile, alternandole con le battaglie civili e religiose. Nato per combattere, dentro e fuori dal ring, Alì diventa anche il simbolo di un’epoca cruciale della storia americana; per alcuni un martire, per altri un buffone ma, sicuramente, un emblema di tutte le contraddizioni del paese simbolo del capitalismo. Nella seconda parte della pellicola emerge chiaramente un’analisi politica criticamente tagliante e ci viene mostrato a più riprese il lato umano (e fragile) di Alì: le sue sconfitte, i suoi demoni interiori, la difficoltà di gestire una grandezza forse superiore alla sua forza d’animo ma anche la grande capacità di reazione, la cocciuta tenacia, le qualità di incassatore (sul ring e nella vita) che poi porteranno al trionfo di Kinshasa. Dal punto di vista tecnico l’opera è una nuova pietra miliare nella carriera del regista, per l’abilità di fondere insieme immagini, suoni, musica e rumori in un unico magma pulsante, un fuoco viscerale in cui batte forte il cuore dell’Africa. Tantissime le sequenze memorabili, l’intera parte finale dedicata al match di Kinshasa è un unico grande pezzo da antologia cinematografica, ma preferisco citare la scena iniziale, in cui il vigoroso montaggio alternato suggerisce visivamente la connessione tra la boxe (i cui movimenti ricordano quelli di una danza tribale) e la musica. Da elogiare tutto il cast con Will Smith (nella migliore interpretazione della sua carriera), Jamie Foxx, Jon Voight, Mario Van Peebles, Jeffrey Wright, Jada Pinkett Smith e Giancarlo Esposito, le musiche di Pieter Bourke e Lisa Gerrard e la splendida fotografia di Emmanuel Lubezki. Il film ha avuto due nomination agli Oscar per gli attori Will Smith e Jon Voight. Viene da molti ritenuto un film minore dell’autore, ma è assolutamente all’altezza dei suoi lavori migliori e più significativi.

Voto:
voto: 4/5

Nessun commento:

Posta un commento