sabato 22 luglio 2017

The Bad Batch (The Bad Batch, 2016) di Ana Lily Amirpour

In un Texas futuribile gli esseri umani giudicati "difettosi", ovvero non conformi a dei criteri prestabiliti dal potere, vengono segnati con un numero di serie tatuato dietro l'orecchio, espulsi dai confini civili e abbandonati in un pericoloso deserto sterminato dove vivono i reietti della società, che si sono organizzati in comunità tribali spesso violente e brutali. La giovane Arlen, estromessa in quanto "difettosa", si ritrova a vagare nel torrido deserto dove vige la spietata legge ancestrale della sopravvivenza a tutti i costi. Rapita da un gruppo di selvaggi cannibali, che catturano persone per utilizzarle come carne da macello con cui sfamarsi, la ragazza subisce l'amputazione di un braccio e di una gamba ma riesce a fuggire grazie alla sua determinazione. Trovata da uno strambo viandante che raccatta tutto ciò che trova nelle numerose discariche presenti nel deserto, viene condotta nella comunità chiamata Comfort, più mite e accogliente, e riesce così a salvarsi la vita. Comfort è comandata da un sedicente guru che proclama una dottrina psichedelica di raggiungimento del "sogno", distribuisce droghe sintetiche e vive in un lussuoso harem di giovani donne che lo adorano come un profeta. Ma l'inquieta Arlen non resiste a lungo nella nuova collettività e riprende la via del deserto, armata di pistola, in cerca di vendetta e di sè stessa. Inquietante opera seconda della regista di origini iraniane Ana Lily Amirpour, che riconferma tutto il suo grande talento visionario creando un universo fantastico ferocemente efferato ma di grande fascino oscuro e di indubbia potenza simbolica. All'evidente ricerca di uno sguardo laterale, provocatorio e creativamente straniante, l'interessante autrice realizza un film aspro e sovraccarico, un'ardita commistione di generi tra cui il western surreale, la fantascienza distopica, l'horror sanguinario, il melodramma estremo, il thriller e l'avventura selvaggia. Un film che, sotto la sua anima nera e amorale, nasconde una truce allegoria dell'altra faccia del sogno americano, con evidenti ambizioni di tracciare un cupo affresco antropologico fondato sulla paura. La paura dell'altro, la paura dello straniero, la paura del diverso, la paura che fa emergere le pulsioni animalesche dell'essere umano facendolo regredire in una nuova preistoria collettiva. Da un lato c'è il potere intransigente che esilia gli indesiderati e li abbandona in uno sconfinato ghetto infernale dove vige la legge della giungla, una nuova declinazione dell'antico homo homini lupus favorito dalla mancanza di regole e dall'istinto di sopravvivenza. Ma dall'altro ci sono i reietti esclusi che cercano di organizzarsi in comunità più evolute in cui emergono inevitabilmente la rapacità e l'avidità tipicamente umane, ricreando le medesime disparità sociali del mondo dei "buoni", in cui i più forti cercano di sfruttare i più deboli a loro vantaggio. Notevoli le interpretazioni mimetiche del cast, che alla giovane protagonista Suki Waterhouse (forse troppo bella per il ruolo, unica concessione della regista alla tirannia dell'immagine contemporanea), affianca un massiccio Jason Momoa, un viscido Keanu Reeves, un allucinato Giovanni Ribisi ed un irriconoscibile Jim Carrey, che si diverte a stravolgere la sua immagine, spesso con eccellenti risultati come in questo caso. Intriso di amaro pessimismo in merito alla natura umana, il film si avvale di uno splendido finale ambiguo, sospeso tra crudeltà e speranza, che suggella la stoffa di una regista di cui sentiremo certamente parlare nei prossimi anni e che fa ben sperare gli amanti del cinema di genere autoriale lontano anni luce dalle regole del mainstream. Insignito, non senza polemiche, del Premio speciale della giuria alla 73° edizione del Festival di Venezia, non è mai stato distribuito in sala nel nostro paese (!) ed ha spaccato in due la critica della rassegna lagunare. Il suo più evidente punto debole è l'attingere fortemente da un immaginario visivo già fortemente consolidato dalla saga australiana di Mad Max creata da George Miller, con particolare riferimento all'ultimo stupefacente episodio che ne ha clamorosamente rinverdito i fasti, lasciando pubblico e critica a bocca aperta per la violenta magnificenza estetica. Mezza stellina in più all'estro ribelle della Amirpour.

Voto:
voto: 4/5

Nessun commento:

Posta un commento