Bronx,
1964: nella scuola cattolica St. Nicholas la rigida preside Sorella Aloysius
Beauvier gestisce le regole con ferrea disciplina e austero conservatorismo,
convinta che la severità e il rigore siano alla base dell’educazione. Intanto
nella società americana sono in corso profondi mutamenti sia politici sia
culturali e sia di costume e questo vento di cambiamento viene introdotto
nell’istituto dal carismatico e dinamico Padre Flynn, che auspica una revisione
dei metodi di insegnamento più conforme allo spirito dei tempi. Non a caso
viene accettato il primo studente di colore, Donald Miller, a cui Flynn si
dedica con grande gioia e dedizione, facendolo diventare chierichetto. La
giovane Sorella James, ingenua e carica di ideali, nota qualcosa di strano nel
rapporto tra il prete e il giovane afroamericano e condivide con la preside il
suo sospetto di presunte molestie sessuali. La Beauvier, pur in mancanza di
prove certe, scatena una sorta di crociata contro Padre Flynn per farlo
allontanare dalla scuola, nonostante l’accusato si dichiari estraneo da ogni
addebito infamante. Lo scontro tra i due crea un vero terremoto nell’istituto e
nella chiesa locale, col rischio di conseguenze gravissime. Splendido dramma “da
camera” di John Patrick Shanley, che adatta e dirige per il cinema la sua
omonima opera teatrale di grande successo, già vincitrice del Premio Pulitzer
nel 2005. La trasposizione è fedele nello spirito anche se lascia fuori il
contesto politico esterno, con gli echi ancora forti dell’omicidio Kennedy e
l’imminente Concilio Vaticano II. Proprio su queste due simboliche direttrici
va posizionato il senso intimo del film: il conflitto tra tradizione e
innovazione, calato in un ambito notoriamente complesso, problematico e
conservatore come quello ecclesiastico. La sceneggiatura granitica e la messa
in scena generalmente classica ne fanno una parabola lucida e sottile sul
relativismo della verità, sull’ambiguità e sulla fallibilità di tutto ciò che è
umano, rendendo quindi il dubbio un fattore imprescindibile rispetto ad ogni
ricerca analitica che cerchi di trovare una risposta o una soluzione. Ben
lontano dall’essere un film anticlericale, la pellicola lascia che sia lo
spettatore a decidere da che parte stare e l’autore mantiene uno sguardo
asettico e neutrale, facendo intendere che, spesso, le domande pesano più delle
risposte. Solleticando lo spirito critico del pubblico con un ginepraio di contraddizioni,
psicologie, sottotesti, interrogativi e sospetti, il film finisce per essere,
come da titolo, una fine apologia dell’indeterminatezza e, quindi, una critica
del dogmatismo. Il difetto maggiore dell’opera è il tentativo un po’ maldestro
del regista di differenziare la pièce
teatrale dal film attraverso acrobazie tecniche (inquadrature sghembe o vertiginose
riprese dall’alto) che stonano con il contesto generale “vecchio stile”. Il
punto di forza assoluto è invece la straordinaria performance dell’intero cast, in cui è davvero arduo stabilire chi
sia il più bravo tra Meryl Streep, Philip Seymour Hoffman, Amy Adams e Viola
Davis, tutti candidati all’Oscar per la loro interpretazione. Memorabile il
confronto verbale tra la Beauvier (Streep) e Flynn (Hoffman), un autentico e
sacrosanto manuale di recitazione.
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