John
Q. Archibald è un operaio onesto e premuroso che si prende cura della propria
famiglia. Quando il piccolo figlio Michael viene colpito da una grave malattia
al cuore e necessita di un urgente trapianto cardiaco, Archibald si scontra con
il cinismo del sistema sanitario americano. L’operazione è troppo costosa per
il budget familiare e l’assicurazione rifiuta di coprire le spese. L’uomo vende
tutto quello che ha, si indebita fino al collo e chiede soldi a tutti i suoi
conoscenti, ma neanche in questo modo riesce ad avvicinarsi alla somma
necessaria. Con la forza della disperazione irrompe armato nel pronto soccorso
dove è ricoverato il figlio e prende in ostaggio l’intero reparto chiedendo un
nuovo cuore per il suo ragazzo in cambio della liberazione dei prigionieri. Tra
le pieghe di una legittima denuncia sociale, che però non risulta mai realmente
pungente ma si limita ad una superficiale e concitata requisitoria, si nasconde
un grossolano polpettone americano retorico, sensazionalistico, inverosimile
e politicamente corretto nel finale consolatorio. Parafrasando maldestramente
la logica di Quel pomeriggio di un giorno da cani, ma senza possederne il rigore narrativo e la densità concettuale,
il film procede, all’insegna di una lineare prevedibilità, per accumulo di
scene madri e situazioni strappalacrime, ricattando lo spettatore con il sentimentalismo
più becero e andando costantemente fuori misura. Le uniche note liete arrivano
dal cast di grandi attori, con Denzel Washington intenso e sempre sopra le
righe, Robert Duvall, eccellente nella sua toccante umanità, James Woods,
credibile nel ruolo del chirurgo, e poi ancora Anne Heche, odiosa nei panni
dell’addetta assicurativa, Kimberly Elise e Ray Liotta. Appartiene alla
categoria di quelle pellicole ipocrite e moraliste che tutti approvano durante
la visione ma che poi dimenticano il giorno dopo per la grossolana enfasi della
denuncia, incline ad un urlato populismo demagogico di facile presa ma totalmente
privo di spessore ideologico.
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