Tracy
è una ragazza di 13 anni che vive con la madre Melanie, parrucchiera a
domicilio, con cui ha un buon rapporto. Dopo l’iscrizione alle scuole superiori
l’incontro con la sveglia Evie, considerata la più sexy dell’istituto, di cui Tracy
subisce inevitabilmente il fascino, la trasforma da studentessa modello tutta Barbie
e peluche del cuore in una ribelle
sfacciata che trascorre il suo tempo tra ossessione per l’aspetto, droga, sesso
occasionale, piccoli reati e atti di autolesionismo. La madre dovrà lottare con
tutte le sue forze per impedire che sua figlia sprofondi nel baratro della
perdizione. Cinico e scioccante dramma sociale, sceneggiato dalla regista
esordiente Catherine Hardwicke insieme all’attrice Nikki Reed che nel film
interpreta la “bad girl” Evie. Nel
rispondere alla domanda “cosa vuol dire avere 13 anni a Los Angeles ?”, la
pellicola porta in scena uno squallido microcosmo della “peggio gioventù”, in
cui la mancanza di ideali, di valori, di riferimenti e di esempi validi, spesso
costituisce la porta di accesso privilegiata (o l’alibi) verso i comportamenti
deprecabili. Lo sguardo realistico, nervoso e feroce della regista cerca di
analizzare le motivazioni di certi comportamenti, rilevandoli facilmente in
omologazione, emulazione, fragilità emotive, incomprensioni irrisolte, scarsa
autostima, rabbia repressa, carenze affettive. Per la sua analisi spietata, per
la crudezza del linguaggio e di numerose sequenze (la cui resa è amplificata
dalla bravura delle tre attrici principali), il film è un autentico pugno allo
stomaco che non mancò di suscitare vibranti polemiche alla sua uscita, come
quella di mostrare un unico punto di vista autodistruttivo o di spettacolarizzare
gli atteggiamenti deviati, dipingendoli come cool. Se certe critiche sono indubbiamente faziose ed eccessive
(oltre che immancabili in ogni film che parli di sesso o violenza), va detto
che non è tutto oro quello che luccica, e infatti la pellicola della Hardwicke,
malgrado la sua pretesa di indagine antropologica e di denuncia sociale, non è
esente da una certa furbizia di maniera, a cominciare dall’impaginazione
grafica patinata, dai luoghi comuni in cui cade pesantemente, da certi dialoghi
patetici o dalla retorica di diverse scene madri in cui Holly Hunter dà fondo
al tutto il suo talento di attrice accademicamente impostata. Diciamo pure che,
ad un certo livello, l’opera cerca di cavalcare l’enfasi scandalosa di un
fenomeno indubbiamente preoccupante (oltre che grave), utilizzando un look ed un linguaggio “alla moda”. Non
c’è dubbio che la brutale immersione nella “girl
culture” a cui il film ci costringe potrebbe risultare parecchio indigesta
ai genitori maturi di figlie adolescenti, ma lo scontro inter-generazionale è
sempre esistito, agli occhi dei “vecchi” i giovani sono sempre sembrati
scapestrati ed il pessimismo su larga scala diventa rapidamente pavido
disfattismo. I problemi adolescenziali esistono ma vanno analizzati e, per
quanto possibile, affrontati dai genitori in collaborazione con i propri figli,
non ignorati o esagerati. Il punto di forza indiscutibile di questo controverso
Thirteen è certamente l’ottima
interpretazione del cast femminile, che annovera Evan Rachel Wood, Nikki Reed e Holly Hunter (candidata all’Oscar come migliore
attrice non protagonista).
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