venerdì 28 maggio 2021

L'imperatore di Roma (1988) di Nico D'Alessandria

Gerry è un giovane disadattato, alcolista e tossicodipendente, che vive da barbone, aggirandosi come uno spettro per le strade di Roma, ad elemosinare o rubare per trovare i soldi necessari all'acquisto di droghe e bevande alcoliche. Quando attraversa i luoghi storici della Roma antica, Gerry improvvisa monologhi deliranti in cui si sente una sorta di predestinato che farà risorgere la gloria dell'Impero romano, immaginando così un nuovo mondo utopistico in cui quelli come lui possano essere felici. Respinto costantemente da tutti, anche dai familiari che lo giudicano pazzo, il nostro si metterà nei guai con la legge per i suoi comportamenti sempre più stravaganti e finirà rinchiuso in manicomio per volere del padre. Allucinato dramma espressionista del romano Nico D'Alessandria, grande artigiano sperimentatore del nostro cinema indipendente, che con questo secco film neorealista fuori tempo massimo (sospeso tra Pasolini e Zavattini), realizza il suo piccolo capolavoro, l'opera che è la quintessenza della sua poetica minimalista sui perdenti, sugli alienati e sulle zona d'ombra di quella Roma "caput mundi" piena di contraddizioni e di ambiguità. Girato con pochi mezzi, in uno spettrale bianco e nero e con attori non professionisti, è un film importante, doloroso, poetico e allegorico, una metafora sulla decadenza e l'indifferenza della società moderna, di cui Roma è (anche in questo) "caput". La macchina da presa pedina costantemente il protagonista, un normanno biondo reietto e obnubilato, il cui peregrinare è come una via crucis (ma senza resurrezione) in una città "eterna" che ha perduto i suoi fasti e le sue glorie ed è ridotta ad un cumulo di rovine (architettoniche, morali, umane) e di cui Gerry, rifiuto tra i rifiuti, è il naturale "imperatore". Senza alcuna retorica patetica, giudizio morale o preconcetto ideologico, il regista lo accompagna nel suo cupio dissolvi, ne sostiene le fantasticherie e le disperazioni, i deliri e le bassezze, i sogni e le amenità, facendone una sorta di bizzarro Cristo laico flagellato dalla vita, simbolo di un degrado generazionale che si estende dalle periferie dimenticate alle vie del centro affollate di turisti, un randagio tra i gatti randagi del Colosseo. Memorabile la magica sequenza notturna nei Fori Imperiali, in cui Gerry, armato di piccone, sogna di rinnovare il rito epico della fondazione di Roma e la rinascita di un Impero che accolga gli invisibili come lui, in un gesto solenne ed eterno, in bilico tra follia, utopia, tragedia esistenziale e apocalisse sociale. Il regista scelse il suo protagonista Gerardo Sperandini, dopo averlo conosciuto nell'ospedale psichiatrico di Aversa dove il padre, maresciallo di polizia, lo aveva fatto rinchiudere per schizofrenia, aggressività, tossicodipendenza e stile di vita sregolato. Dopo molti tentativi D'Alessandria riuscì ad ottenere un permesso speciale dal magistrato per farlo uscire nel periodo necessario alle riprese (circa un mese), a patto di non perderlo mai di vista perchè potenzialmente pericoloso per sè stesso e per gli altri. Nel film Sperandini interpreta sè stesso e quella che viene raccontata è praticamente la sua vera storia, al netto di qualche invenzione poetico romanzata inserita dal regista. Le riprese furono complicate perchè l'attore non era sempre lucido, spesso non capiva cosa gli veniva detto di fare o reagiva con modi violenti e imprevedibili. L'autore stabilì un autentico legame con il suo protagonista, che proseguì a livello epistolare anche dopo la fine delle riprese, quando Sperandini ritornò in clinica senza mai più poter uscire. Nonostante il suo fremente desiderio di poter vedere il nuovo millennio (forse fantasticando nell'alba di una nuova era per lui, come il personaggio del film), Gerardo Sperandini, "imperatore di Roma", morì (per un beffardo scherzo del destino) nell'ultimo giorno dell'anno 1999.

Voto:
voto: 3,5/5

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