Storia
vera dello scalatore austriaco Heinrich Herrer, simpatizzante del nazismo, che
lascia la sua famiglia e parte per l’Himalaya con l’intenzione di scalarne una
delle cime più alte. Fatto prigioniero dagli inglesi riesce a evadere e si
rifugia in Tibet dove diventa amico del Dalai Lama, con cui condividerà, nei
suoi sette anni di permanenza nella città sacra di Lhasa, un rapporto sincero
di stima e di affetto, assistendo anche ad importanti eventi storici come la
terribile invasione cinese. Tornato in patria Herrer racconterà la sua
incredibile esperienza in un libro autobiografico e resterà in contatto con il Dalai
Lama. Imponente kolossal storico che accosta la straordinaria bellezza delle
immagini naturali, incorniciate da epiche riprese dall’alto o in campo lungo,
con l’algida freddezza del tono che sembra quasi bandire le emozioni obbedendo
ai uno dei requisiti del buddismo tibetano. Peccato che l’imponenza visiva non
corrisponda alla profondità di analisi o alla densità narrativa che procede per
accumulo di stereotipi spirituali sul modo in cui gli occidentali un po’ snob
vedono il buddismo, cogliendone solo gli aspetti più esteriori (e modaioli) di
pacifismo e misericordia. Lo stesso percorso interiore del protagonista, che da
egoista arrogante si trasforma in mite compassionevole, viene mostrato con
frettolosa superficialità, senza mai indagarne le sfumature psicologiche o le
evoluzioni morali. E’ un film affascinante nell’estetica e nelle atmosfere
rarefatte ma incerto, prolisso e opaco nella resa narrativa. Un’opera riuscita
solo a metà che suscitò non poche polemiche alla sua uscita per la brutale
rappresentazione fornita dei soldati cinesi. Nel cast la star Brad Pitt è
affiancato da attori asiatici sconosciuti, come Jamyang Jamtsho Wangchuk, che
sembrano più a suo agio di lui. La prospettiva proposta dall’opera è
unilaterale e calligrafica, alla maniera hollywoodiana.
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