martedì 27 giugno 2017

Sette anni in Tibet (Seven Years in Tibet, 1997) di Jean-Jacques Annaud

Storia vera dello scalatore austriaco Heinrich Herrer, simpatizzante del nazismo, che lascia la sua famiglia e parte per l’Himalaya con l’intenzione di scalarne una delle cime più alte. Fatto prigioniero dagli inglesi riesce a evadere e si rifugia in Tibet dove diventa amico del Dalai Lama, con cui condividerà, nei suoi sette anni di permanenza nella città sacra di Lhasa, un rapporto sincero di stima e di affetto, assistendo anche ad importanti eventi storici come la terribile invasione cinese. Tornato in patria Herrer racconterà la sua incredibile esperienza in un libro autobiografico e resterà in contatto con il Dalai Lama. Imponente kolossal storico che accosta la straordinaria bellezza delle immagini naturali, incorniciate da epiche riprese dall’alto o in campo lungo, con l’algida freddezza del tono che sembra quasi bandire le emozioni obbedendo ai uno dei requisiti del buddismo tibetano. Peccato che l’imponenza visiva non corrisponda alla profondità di analisi o alla densità narrativa che procede per accumulo di stereotipi spirituali sul modo in cui gli occidentali un po’ snob vedono il buddismo, cogliendone solo gli aspetti più esteriori (e modaioli) di pacifismo e misericordia. Lo stesso percorso interiore del protagonista, che da egoista arrogante si trasforma in mite compassionevole, viene mostrato con frettolosa superficialità, senza mai indagarne le sfumature psicologiche o le evoluzioni morali. E’ un film affascinante nell’estetica e nelle atmosfere rarefatte ma incerto, prolisso e opaco nella resa narrativa. Un’opera riuscita solo a metà che suscitò non poche polemiche alla sua uscita per la brutale rappresentazione fornita dei soldati cinesi. Nel cast la star Brad Pitt è affiancato da attori asiatici sconosciuti, come Jamyang Jamtsho Wangchuk, che sembrano più a suo agio di lui. La prospettiva proposta dall’opera è unilaterale e calligrafica, alla maniera hollywoodiana.

Voto:
voto: 3/5

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