Mentre
l'anziano intellettuale Alexander festeggia il suo compleanno con la famiglia nella
sua casa su un'isola svedese, la televisione annuncia l’arrivo imminente di una
terribile catastrofe apocalittica. Poco dopo la notizia iniziano eventi
sconvolgenti, scosse di terremoto, segnali minacciosi, aerei militari che solcano
i cieli in continuazione. Alexander, terrorizzato, recita le parole del “Padre
Nostro” e lo invoca offrendogli in estremo sacrificio tutto quello che ha pur che
tutto ritorni come prima. Posseduto da una mistica follia l’uomo brucia la sua
casa ed è pronto ad offrire la sua vita pur di salvare i suoi cari. Ultimo film
e ultimo capolavoro di Tarkovskij, regista poeta morto poco dopo la fine delle
riprese. E’ una preghiera accorata che si fa metafora della perdita di
spiritualità della società moderna e su come il sacrificio più estremo (inteso
anche come disconoscimento di sè o come uccisione edipica del padre) sia
l’unica forma possibile per tentarne il recupero. E’ anche un cupo apologo sul
benessere materiale e sul consumismo, una denuncia sulla responsabilità
soggettiva dell’uomo nella storia, un racconto mistico sulla paura della guerra
nucleare, un elogio metafisico del silenzio, un limpido trattato drammatico
sulla violenza insita nella natura umana, una riflessione astratta sull’essenza
dell’arte e sul ruolo dell’artista nella realtà politica. Più semplice e
lineare rispetto alle altre opere dell’autore, ha la forza solenne di un’opera
lirica e l’austerità di un trattato morale, in cui gli elementi ermetici non sono
rappresentati dalla narrazione ma dai personaggi (alcuni di arcana
enigmaticità) che sembrano quasi simboleggiare delle misteriose chiavi di
accesso alternative a differenti interpretazioni della pellicola. E’ anche un
film profondamente religioso e spirituale (come non citare la splendida
immagine di apertura con “L’adorazione dei Magi” di Leonardo Da Vinci), pervaso
da ascetico naturalismo (la figura pregnante dell’albero) e con un finale
pacificato venato di sobrio ottimismo (a dimostrazione di una saggezza
illuminata raggiunta dal regista poco prima di dire addio alla vita terrena).
L’esplicita dedica di questo film testamento al figlio ed il magico epilogo
allegorico sono un significativo atto di apertura e di speranza verso le future
generazioni. E’ anche un’opera che stabilisce una suggestiva connessione
simbolica e sintonia artistica, oltre che affinità personale, tra due dei
massimi Maestri della “settima arte”: Andrei Tarkovskij e Ingmar Bergman.
Infatti il direttore della fotografia della pellicola è il leggendario Sven
Nykvist, mentre il magnifico attore protagonista è Erland Josephson, due
insigni figure tipicamente bergmaniane. Premiato al Festival di Cannes con il
Gran Premio della Giuria, questo estremo lascito del geniale regista sovietico è
la perfetta chiosa filosofica del suo percorso metafisico, un viaggio concettuale
basato sulla costante ricerca della conoscenza. Ricerca intesa come azione
progressiva e proattiva verso un traguardo (forse irraggiungibile), piuttosto
che come attesa inerte di una rivelazione.
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