giovedì 29 giugno 2017

Happiness (Happiness, 1998) di Todd Solondz

Cronache di malcelato orrore quotidiano della classe media americana. La famiglia Jordan, due genitori anziani (Lenny e Mona) che si sono trasferiti in Florida e tre figlie femmine (Joy, Trish ed Helen) che vivono nel New Jersey, è un tipico nucleo familiare borghese, apparentemente rispettabile e sereno ma con un groviglio di perversioni e frustrazioni nascoste. La trentenne Joy vive ancora nella casa dei genitori, ha una vita sentimentale disastrosa e una improbabile relazione con un suo giovane studente immigrato dalla Russia. Trish è sposata con Bill, ha due figli, è sconsolatamente infelice ma non immagina che il marito ha un terribile segreto inconfessabile da nascondere. Helene è una scrittrice di successo che flirta con uno stalker telefonico, ignorando che si tratta del timido Allen, suo vicino di casa, che è in cura dall’analista Bill, marito di Trish. Stanco dei giochini della sexy Helene, Allen si fa coraggio e decide di uscire con la poco avvenente Kristina (che però è chiaramente interessata a lui), che dopo qualche bicchiere di troppo gli confida di aver ucciso e fatto a pezzi il corpo del portiere del palazzo, dopo che lui l’aveva stuprata. Crudele commedia nera di Todd Solondz, senza dubbio la più acida, la più feroce e la più scioccante degli anni ’90 per i suoi contenuti forti e sgradevoli che dipingono un cupo ritratto immorale della società americana odierna. Nel campionario di mostruosità che il film descrive senza alcun compiacimento morboso, anzi evidenziandone la banale ritualità abitudinaria, la geniale scelta stilistica dell’autore è quella di tener celate cose che normalmente si vedono sul grande schermo, di mostrarne esplicitamente altre che di solito si tengono nascoste per imbarazzo e di affidare ad un drammatico dialogo finale (teso come un cavo d’acciaio) la sequenza più atroce e sconvolgente dell’opera, forse la più disturbante in assoluto che il cinema americano ci ha proposto negli ultimi vent’anni. Questo piccolo grande film indipendente, la cui tagliente perfidia è pari solo alla sua rigorosa lucidità di analisi, utilizza un’audace ironia al vetriolo, a cominciare dal titolo beffardo, e ricorre al filo conduttore del cibo per tenere insieme le diverse sottotrame della vicenda. Tra eccessi e depravazioni, fallimenti e scheletri nell’armadio, non si ride e non si piange, forse a volte si ghigna, di sicuro ci si indigna e si riflette con sincera amarezza e dolente disincanto. Forse un po’ troppo lungo (134 minuti di purissima cattiveria distillata potrebbero risultare duri anche per i cinici impenitenti), ma i dialoghi sono ficcanti, le atmosfere torbide, i personaggi caratterizzati alla perfezione (anche nelle peggiori iniquità) ed il cast (che annovera Dylan Baker, Cynthia Stevenson, Rufus Read, Justin Elvin, Jane Adams, Jared Harris, Philip Seymour Hoffman, Lara Flynn Boyle e Ben Gazzara) straordinario nella sua performance globale. Ha fatto scalpore alla sua uscita per le tematiche trattate, fu accusato (in maniera strumentale) di banalizzare l’infamia, ebbe diversi problemi con la censura ma poi tutto si risolse con un divieto ai minori di 17 anni (che vale anche per un’eventuale visione in home video perchè gli argomenti affrontati potrebbero turbare). Diversi attori famosi rifiutarono di partecipare alla pellicola, giudicandola troppo estrema nei contenuti. Sconcertante e memorabile, può essere provocatoriamente definito come il lato oscuro (!) del capolavoro altmaniano America Oggi.

Voto:
voto: 4,5/5

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