Vita,
molto romanzata, del matematico americano John Forbes Nash suddivisa in quattro
periodi: dagli studi giovanili a Princeton, ai lunghi anni di ricerca durante i
quali ha elaborato la sua teoria dei giochi, con successiva geniale intuizione
di applicarla ai modelli economici per calcolare le fluttuazioni dei mercati
finanziari, cosa che gli è valso il Premio Nobel per l’economia 1994. Il tutto
passando attraverso una grave forma di schizofrenia che lo ha sempre
accompagnato, rendendolo per lunghi periodi invalido perchè calato in un mondo
tutto suo, incapace di distinguere la realtà dalle allucinazioni, e l’amore per
la bella e tenace Alicia, compagna e moglie che lo ha costantemente sostenuto
nei momenti più bui. Uomo schivo, irrequieto e ombroso, Nash ha vissuto una
vita, a suo modo straordinaria, sospesa tra genio e follia. Tratto dalla
biografia “Il genio dei numeri” di Sylvia
Nasar e sceneggiato da Akiva Goldsman, il film di Ron Howard è un biopic in forma classica ricolmo di
tutti gli stereotipi e le convenzioni hollywoodiane, secondo il collaudato cliché di pellicola acchiappa premi.
Enfatizzato nelle vicende, semplificato nei passaggi chiave, banale
nell’accumulo di scene madri, ruffiano nel programmatico utilizzo di un
sentimentalismo edificante e strappalacrime, è un film astuto e confortante,
costruito ad hoc per raccogliere facili consensi e riconoscimenti. Ha però due
meriti indubbi: la sorpresa che arriva a metà film e che lo divide idealmente
in due parti molto diverse (la migliore è la prima), entrambe nella soggettiva
del protagonista. E la grande prova recitativa di un ottimo cast in cui
svettano un dimesso e bravissimo Russel Crowe, in un inedito ruolo
introspettivo, e l’intensa Jennifer Connelly, premiata con l’Oscar come miglior
attrice non protagonista. Notevoli le interpretazioni anche degli altri
componenti tra cui ricordiamo Ed Harris, Paul Bettany, Josh Lucas e Christopher
Plummer. Assai meno convincente l’utilizzo del trucco prostetico per
ringiovanire e invecchiare gli attori in un racconto che spazia temporalmente
dal 1947 al 1994. La pellicola ebbe un notevole successo di pubblico, come era
ampiamente prevedibile, e vinse quattro Oscar “pesanti”: miglior film, regia,
sceneggiatura e la Connelly. Consigliato ai mainstreamers
dalla lacrima facile in cerca di buoni sentimenti e romanticismo sdolcinato. Lo
spettatore più esigente e sottile non potrà non storcere il naso per il
grossolano buonismo didascalico.
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