In
un futuro imprecisato i robot sono diventati parte integrante della società ma
la Cybertronics, azienda leader del settore, decide di spingersi ancora più
oltre realizzando il piccolo David, un modello innovativo di robot bambino
dalle sembianze perfettamente umane, capace di provare emozioni e concepito per
amare senza condizioni colui (o colei) che lo inizierà ai sentimenti attraverso
una procedura di “Imprinting”.
Affidato ai coniugi Swinton, David si lega morbosamente alla madre, che però
non esita ad abbandonarlo in un bosco dopo che il suo figlio naturale si
risveglia dal coma e si dimostra geloso dell’intruso. Rimasto solo con Teddy,
un orsetto meccanico parlante, il nostro passa attraverso molte avventure, da
una radura da incubo in cui gli automi vengono distrutti in un macabro
spettacolo che ricorda i "circhi" dei gladiatori romani, ad un'avveniristica e
decadente città, Rouge City, dedicata ai piaceri “artificiali”. Aiutato da un
improbabile compagno di viaggio, un robot programmato per il piacere sessuale
chiamato Gigolò Joe, David contatta l'onnisciente Dottor Know, un software
tuttologo, per ricevere notizie sul luogo in cui vive la Fata Turchina
(di cui ha sentito parlare dalla fiaba di “Pinocchio”),
convinto che lei sarà in grado di trasformarlo in un bambino vero e che, in
questo modo, l’amata madre lo riprenderà con sè. Inviati a Manhattan dallo
strambo Dottor Know, i tre compagni di viaggio trovano una brutta sorpresa:
l’intera città di New York è stata sommersa dalle acque dell’Oceano, da cui
emergono solo i piani più alti di alcuni grattacieli. Antefatto: fin dalla fine
degli anni ’80 Stanley Kubrick voleva realizzare a tutti i costi questo film,
adattando il breve racconto di Jan Watson del 1969 “I supergiocattoli che durano tutta l’estate”. Il grande regista
aveva già scritto ampi tratti della sceneggiatura, realizzato disegni
concettuali delle scenografie e scelto il titolo finale: “Artificial Intelligence: AI”. Ma aveva sempre rimandato il progetto
perchè non riteneva gli effetti speciali in grado di soddisfare appieno
l’altezza della sua visione. Dopo aver guardato Jurassic Park rimase così impressionato dalla resa visiva dei dinosauri
digitali che chiamò subito al telefono Steven Spielberg, iniziando con lui un affettuoso e duraturo sodalizio telefonico intercontinentale (Kubrick viveva in
Inghilterra). Dopo alcuni anni di lunghe chiacchierate con il collega americano
in merito al progetto A.I., Kubrick
si convinse che i tempi erano ormai maturi ed era solo indeciso se limitarsi a
produrre il film, affidando la regia a Spielberg, o viceversa. Dopo la morte
improvvisa del Maestro, avvenuta nel 1999, Spielberg si sentì in dovere di
onorarlo portando avanti il lavoro iniziato, completando la sceneggiatura
scritta da Kubrick, ispirandosi ai bozzetti da lui stesso disegnati per gli
ambienti scenografici e dirigendo personalmente il film. Che cos’è dunque questo A.I. - Intelligenza artificiale ? Un
film di Kubrick diretto da Spielberg ? Quanto è rimasto delle idee originali
del grande Maestro in ciò che abbiamo visto al cinema nel 2001 ? E, a guardare
l’anno di uscita, è evidente che al destino non manca il senso dell’umorismo. E’
questa la domanda che si sono posti tutti i fans kubrickiani approcciandosi
alla visione della pellicola, sospesi tra timori e speranze. La discussione è
ovviamente complessa e, probabilmente, interminabile, come quella sul montaggio
finale di Eyes Wide Shut. Va detto
subito che A.I. è un film anomalo e tortuoso,
un film dalla doppia personalità e dalla doppia anima, poco kubrickiano e
troppo spielberghiano. Una favola tecnologica divisa in tre parti: nella prima
(l’ambientamento di David nella famiglia adottiva), fatta di momenti semplici e
secchi, è evidente che Spielberg cerca di imitare lo stile algido di Kubrick e,
a tratti, ci riesce anche bene. Nella seconda (la “fiera della carne” e Rouge
City), l’immaginario visionario deborda in un’orgia di sensazionalismo apocalittico
(con echi di Olocausto ebraico), con suggestioni che spaziano dal fantasy dark all’horror, ma con un
risultato stilistico non sempre calibrato. Nella terza (Manhattan e l’incontro
con gli alieni) il film sprofonda (in tutti i sensi) in un tripudio di melassa
sentimentale e di buonismo sdolcinato, mescolando insieme, con maldestra
presunzione, Pinocchio e Peter Pan, Edipo e Incontri ravvicinati, fino al
tripudio di un ruffiano epilogo strappalacrime, enfatizzato dalle note,
struggenti fino allo sfinimento, di John Williams. La metafora del viaggio di
formazione con cui ogni maschio cerca inconsciamente di tornare al grembo
materno si concretizza in una fiaba melodrammatica che è totalmente spielberghiana,
in cui i molti simbolismi psicoanalitici del finale prolisso e patetico si
disperdono in un sentimentalismo disarmante e dozzinale. E’, probabilmente, il peggior film di Spielberg
e sono pronto a scommettere che a Kubrick non sarebbe affatto piaciuto.
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