Viktor
Navorski, turista proveniente dalla Krakozhia, un piccolo stato dell’Europa caucasica
inventato per l’occasione, sbarca all’aeroporto JFK di New York con un sogno
nascosto in una scatola, proprio mentre il governo del suo paese viene
rovesciato dallo scoppio improvviso di una guerra civile. Per la sua
particolare situazione momentanea di apolide suo malgrado, il nostro finisce in
un paradossale limbo burocratico da cui Frank Dixon, direttore dell’aeroporto
pedante e zelante, non sa come districarsi, decidendo alla fine, lavandosene le
mani, di negare a Navorski sia il visto di accesso negli USA sia la possibilità
di ripartire verso qualunque destinazione. Il povero straniero, uomo garbato e
bonario, rimane bloccato per nove mesi nel JFK, durante i quali impara
l’inglese a livello basico, diventa amico dei tanti lavoratori immigrati, si
arrangia con mille lavoretti, vive una storia d’amore platonica con una bella hostess
sentimentalmente delusa e sarà persino eroe per un giorno dopo aver aiutato un
disperato e sprovveduto viaggiatore russo a portare nel suo paese dei farmaci
senza ricetta, necessari a salvare suo padre gravemente ammalato. Sotto lo
sguardo vigile e stizzoso del tronfio direttore Dixon, chiaramente infastidito
dai successi di Navorski, il nostro riuscirà a coronare il piccolo sogno che lo
ha portato in America per poi tornare al suo paese finalmente pacificato.
Brillante commedia di Spielberg (alla sua terza collaborazione con Tom Hanks),
gradevole e divertente, forte di un’amabile leggerezza, di personaggi vivaci e
di un umorismo rassicurante, all’insegna di un umanesimo appassionato che intende
tracciare una parabola allegorica dell’integrazione razziale, il vero punto di
forza (oggi troppo spesso messo in discussione) degli Stati Uniti, che sono un
miscuglio di razze e di cui il non-luogo del Terminal del JFK rappresenta una
simbolica sineddoche. Navorski, scheggia impazzita che mette in crisi un
sistema burocratico borioso e arrogante, è l’anomalia che manda in crisi la
struttura, è il bug che mette a nudo
la debolezza delle politiche intransigenti con la semplice forza di una mite
carica umana, ricordando a tutti ciò che l’America è: un impasto di culture,
lingue ed etnie diverse. Sospeso tra il cinema utopistico di Frank Capra e le
satire di costume di Preston Sturges, il film abbonda del favolismo buonista
tipico dell’autore, tra retorica del Sogno Americano e sentimentalismo
languido, ma, stavolta, tutto appare un po’ più accettabile perchè meglio
calibrato in una dimensione leggera che non si prende troppo sul serio. Tra
scene madri (irresistibile quella della capra), romanticismo da soap opera e inserti da puro idillio
spielberghiano (Enrique che risveglia Navorski, apparendogli in un alone di
luce, per sussurrargli soavemente che “la
guerra è finita!”), la pellicola si avvale di una confezione tecnica
magistrale (straordinarie le scenografie di Alex McDowell che ha ricostruito
interamente in studio il Terminal internazionale del JFK), delle belle musiche
del solito John Williams e delle buone interpretazioni del grande cast in cui
spiccano il protagonista Tom Hanks, notevole la sua performance linguistica apprezzabile solo vedendo il film in lingua
originale, Stanley Tucci, a suo agio nei panni del “cattivo”, Catherine
Zeta-Jones, Diego Luna, Barry Shabaka Henley e Zoe Saldana. Da citare anche il gustoso cameo del grande jazzista Benny Golson, che interpreta se stesso. Qualche
paternalismo in meno avrebbe giovato ma, come già detto altre volte a
proposito di Spielberg, il nostro è un grande sognatore che fa film per
sognatori.
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