venerdì 14 luglio 2017

The Terminal (The Terminal, 2004) di Steven Spielberg

Viktor Navorski, turista proveniente dalla Krakozhia, un piccolo stato dell’Europa caucasica inventato per l’occasione, sbarca all’aeroporto JFK di New York con un sogno nascosto in una scatola, proprio mentre il governo del suo paese viene rovesciato dallo scoppio improvviso di una guerra civile. Per la sua particolare situazione momentanea di apolide suo malgrado, il nostro finisce in un paradossale limbo burocratico da cui Frank Dixon, direttore dell’aeroporto pedante e zelante, non sa come districarsi, decidendo alla fine, lavandosene le mani, di negare a Navorski sia il visto di accesso negli USA sia la possibilità di ripartire verso qualunque destinazione. Il povero straniero, uomo garbato e bonario, rimane bloccato per nove mesi nel JFK, durante i quali impara l’inglese a livello basico, diventa amico dei tanti lavoratori immigrati, si arrangia con mille lavoretti, vive una storia d’amore platonica con una bella hostess sentimentalmente delusa e sarà persino eroe per un giorno dopo aver aiutato un disperato e sprovveduto viaggiatore russo a portare nel suo paese dei farmaci senza ricetta, necessari a salvare suo padre gravemente ammalato. Sotto lo sguardo vigile e stizzoso del tronfio direttore Dixon, chiaramente infastidito dai successi di Navorski, il nostro riuscirà a coronare il piccolo sogno che lo ha portato in America per poi tornare al suo paese finalmente pacificato. Brillante commedia di Spielberg (alla sua terza collaborazione con Tom Hanks), gradevole e divertente, forte di un’amabile leggerezza, di personaggi vivaci e di un umorismo rassicurante, all’insegna di un umanesimo appassionato che intende tracciare una parabola allegorica dell’integrazione razziale, il vero punto di forza (oggi troppo spesso messo in discussione) degli Stati Uniti, che sono un miscuglio di razze e di cui il non-luogo del Terminal del JFK rappresenta una simbolica sineddoche. Navorski, scheggia impazzita che mette in crisi un sistema burocratico borioso e arrogante, è l’anomalia che manda in crisi la struttura, è il bug che mette a nudo la debolezza delle politiche intransigenti con la semplice forza di una mite carica umana, ricordando a tutti ciò che l’America è: un impasto di culture, lingue ed etnie diverse. Sospeso tra il cinema utopistico di Frank Capra e le satire di costume di Preston Sturges, il film abbonda del favolismo buonista tipico dell’autore, tra retorica del Sogno Americano e sentimentalismo languido, ma, stavolta, tutto appare un po’ più accettabile perchè meglio calibrato in una dimensione leggera che non si prende troppo sul serio. Tra scene madri (irresistibile quella della capra), romanticismo da soap opera e inserti da puro idillio spielberghiano (Enrique che risveglia Navorski, apparendogli in un alone di luce, per sussurrargli soavemente che “la guerra è finita!”), la pellicola si avvale di una confezione tecnica magistrale (straordinarie le scenografie di Alex McDowell che ha ricostruito interamente in studio il Terminal internazionale del JFK), delle belle musiche del solito John Williams e delle buone interpretazioni del grande cast in cui spiccano il protagonista Tom Hanks, notevole la sua performance linguistica apprezzabile solo vedendo il film in lingua originale, Stanley Tucci, a suo agio nei panni del “cattivo”, Catherine Zeta-Jones, Diego Luna, Barry Shabaka Henley e Zoe Saldana. Da citare anche il gustoso cameo del grande jazzista Benny Golson, che interpreta se stesso. Qualche paternalismo in meno avrebbe giovato ma, come già detto altre volte a proposito di Spielberg, il nostro è un grande sognatore che fa film per sognatori.

Voto:
voto: 3/5

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