L'Hotel El Royale sorge sulla linea di confine tra il Nevada e la California, al punto che i clienti possono scegliere se soggiornare in una stanza californiana o in una nevadese, andando al di là o al di qua di una linea rossa marcata sul pavimento. Sul finire dell'anno 1969 quattro sconosciuti arrivano a breve distanza nell'isolato e caratteristico albergo: un anziano prete cattolico, una cantante jazz, un venditore di aspirapolvere e una ragazza hippie dal linguaggio sboccato. Li accoglie un inamidato concierge che, nonostante la calma apparente, sembra celare qualche disagio. Perchè l'El Royale ha più di un segreto da nascondere, come anche tutte le persone che si sono ritrovate lì "per caso". Patinato thriller d'ambiente di Drew Goddard, sotto forma di mosaico deduttivo che, se all'inizio è sfuggente e misterioso, alla fine si rivelerà fin troppo chiaro. Fin dal prologo nel passato lo spettatore intuisce che qualcosa non quadra, che la situazione apparentemente normale è solo un pretesto per una trama più oscura e che nessun personaggio è chi dice di essere. Fino a quando l'enigma permane le atmosfere sono affascinanti e la confezione estetica è di gran livello, con la vivida fotografia saturata dai colori elettrici e le hits musicali d'epoca perfettamente confacenti. Ma quando il velo di mistero inizia a diradarsi, tutto sfocia in un accumulo caotico di violenza e colpi di scena non particolarmente convincenti. Troppa enfasi, troppa voglia di sorprendere ad ogni costo, troppo "tarantinismo", troppe spiegazioni e poco equilibrio narrativo. La metafora manichea alla base del progetto è palese: è un film di confine e di passaggio. Tra due stati, tra due epoche e tra due concetti simbolici: il bene e il male. La California e gli anni '60 dovrebbero rappresentare la "luce" (i grandi ideali di cambiamento, il pacifismo, le lotte per i diritti civili, la controcultura, le utopie di libertà). Il Nevada e gli anni '70 incombenti sono invece il "buio" (il vizio del gioco, il sesso mercificato, la caduta delle illusioni sessantottine, la perdita dell'innocenza di un paese che avrebbe conosciuto in rapida sequenza la sconfitta in Vietnam, gli scandali politici e i delitti della Manson's Family). Giocando su questa transizione dal "bene" al "male", il film si pone come chiara allegoria della fine del Sogno Americano, in cui i vari personaggi sono tutti archetipi di qualcosa (allo spettatore volenteroso il compito di fare le sue opportune ipotesi in merito). Ma se le intenzioni sono lodevoli, la riuscita complessiva non è alla medesima altezza. E anche il cast di grande livello, con Jeff Bridges, Cynthia Erivo, Dakota Johnson, Chris Hemsworth, Jon Hamm e il regista franco-canadese Xavier Dolan, sembra un tantino sprecato. Consigliato a spettatori poco esigenti, ai quali potrebbe anche piacere parecchio.
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