Un disoccupato senza tetto e i suoi due figli vivono in miseria e alla giornata nei quartieri periferici di Taipei. Dormono in sudici fabbricati abbandonati, si lavano nei bagni pubblici, mangiano dove e come capita, vagano come fantasmi nei centri commerciali, mentre lui cerca di arrangiarsi tra lavori occasionali e paghe da fame. Un giorno una donna misteriosa che li osserva da tempo entra nella loro vita. L'uomo proietta su di lei l'ombra della ex moglie che lo ha abbandonato. Ming-liang Tsai, grande regista taiwanese amatissimo dai cinefili occidentali (da molti definito come l'Antonioni di Taiwan), è il cantore delle solitudini e delle alienazioni metropolitane, della vita senza filtri mostrata attraverso le sue pulsioni e disperazioni quotidiane. Un cinema sperimentale e anti-spettacolare fatto di contraddizioni interne, che guarda all'essenza della realtà per giungere ad una dolorosa poesia di matrice universale che ha per oggetto l'uomo. Jiao you (più conosciuto in occidente con il suo titolo anglofono, Stray Dogs) è, probabilmente, la sua opera più radicale, più libera, più astratta, più rarefatta, più ostica. Più vicina all'idea di arte, come insieme di "quadri" evocativi interconnessi, che di cinema in senso tradizionale. E', quindi, il classico film d'essai "ammazza pubblico", che farà fuggire a gambe levate lo spettatore medio dopo una decina di minuti. E' un'opera integralista di solenne purezza e di fiera indipendenza espressiva, una sorta di film-testamento (o manifesto) che inverte i tempi, trasfigura oniricamente il passato, annienta la sintassi cinematografica e il concetto stesso di narrazione canonica, in favore di un lungo flusso dilatato di immagini (potenti, pregnanti, icastiche) che ci immergono nel dolore del mondo. Stray Dogs è un viaggio, estenuante, angosciante, ma artisticamente sublime, nelle invisibili apocalissi quotidiane dei reietti senza nome, senza casa, senza patria, senza vita. Ma è anche una beffarda riflessione sul tempo e sul suo intrinseco paradosso percettivo-emotivo: il tempo che distrugge irreversibilmente ogni cosa ma che sembra non passare mai, specialmente quando si è soli, perduti, ai margini. Tutti i cinefili sono soliti accostare l'anti-estetica d'avanguardia di Ming-liang Tsai a grandi autori del passato, cercando attinenze e connessioni, e i nomi più ricorrenti sono quelli di Bresson, Ozu, Antonioni o Fassbinder. E' possibile, se non probabile, che il regista taiwanese si sia spinto ancora un gradino più in là. Questo film, amatissimo dalla critica, ha vinto il Premio speciale della giuria alla 70-esima edizione del Festival di Venezia.
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