Nell’ottobre
del 1994 tre giovani studenti si avventurano nei selvaggi boschi di Burkittsville
(un tempo chiamata Blair) nel Maryland, per girare un documentario su un’antica
leggenda locale, secondo cui una diabolica strega vissuta 200 anni prima
avrebbe rapito, portato nel bosco e poi ucciso in modi orribili un gran numero
di bambini. In breve i tre si smarriscono nella fitta boscaglia e, dopo aver
assistito ad eventi sempre più inquietanti, spariscono senza lasciare traccia.
Qui finisce la trama del film e, da questo punto in poi, inizia la furba
mistificazione che ha reso la pellicola famosa attraverso un’astuta operazione
di marketing virale, tra l’altro nemmeno originale. Un anno dopo vengono
ritrovate le bobine abbandonate nel bosco con tutto il filmato girato dai tre
dispersi e l’intero materiale, che chiarisce in parte l’atroce sorte dei
giovani, viene montato in un film da Daniel Myrick e Eduardo Sanchez, e poi distribuito nelle sale cinematografiche. Copiando spudoratamente l’idea del
falso documentario che mostra la morte violenta dei protagonisti, già
sperimentata nel 1980, con grande successo commerciale e parecchi guai
giudiziari, dal nostro Ruggero Deodato nel famigerato Cannibal Holocaust, i due giovani registi esordienti sono riusciti
a fare il botto al botteghino, facendo parlare moltissimo del film e creando addirittura
un piccolo fenomeno di costume al tempo dell’uscita in sala. E’ quasi inutile sottolineare
la spropositata esagerazione (della serie tanto rumore per nulla) di una
fenomenologia fasulla e inconsistente, costruita su un becero filmetto grezzo,
girato a basso costo e con pochissimi mezzi, che è riuscito a cavalcare l’onda
della credulità e dell’inettitudine sociale. Divenne rapidamente un cult presso le giovani generazione e ci
vollero diversi mesi per sgombrare definitivamente il campo dalla presunzione
di verità degli eventi mostrati. L’intera operazione dimostra però chiaramente
una cosa: che nel moderno mercato il “come” conta più del “cosa” e del
“perchè”. Due meriti vanno comunque riconosciuti a questo farlocco anti-film:
l’indubbia furbizia dell’operazione commerciale che permise alla pellicola di
realizzare il più alto incasso in assoluto in termini di rendimento/costo
(l’idea sarà pure stata copiata però, dopo quasi vent’anni, nessun altro aveva
pensato di riprovarci). E poi la scelta (obbligata ?) di non mostrare mai nulla
esplicitamente: niente sangue, niente violenza, niente delitti, niente strega.
Il film cerca di spaventare (e per alcuni ci riesce alla grande) giocando
unicamente sulle atmosfere, sulle attese, sul timore di ciò che avverti ma non
vedi, sull’ancestrale paura infantile del buio. E se il primo “merito” è solo una
scaltra ruffianeria, il secondo è indubbiamente lodevole nelle intenzioni,
anche se il vero terrore è ben altra cosa. Visto il grande successo di pubblico
ne sono stati girati ben due seguiti, di diverso approccio progettuale, ma
ugualmente insulsi. Ogni epoca ha il film bluff che si merita: meditate gente, meditate!
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