giovedì 31 marzo 2016

Dersu Uzala - Il piccolo uomo delle grandi pianure (Dersu Uzala, 1975) di Akira Kurosawa

Agli inizi del ‘900 il capitano russo Vladimir Arseniev ricorda, in flashback, i suoi due incontri con Dersu Uzala, solitario cacciatore mongolo, senza fissa dimora e di età sconosciuta, avvenuti durante i suoi lunghi viaggi nella taiga siberiana, al confine con la Manciuria, lungo il corso del fiume Ussuri. Nel primo incontro il mongolo salvò la vita al capitano e si fece apprezzare per le sue doti di acutezza, lealtà e saggezza. Nel secondo, cinque anni dopo, Uzala era molto invecchiato e aveva quasi perso la vista, divenendo così impossibilitato a cacciare. Nel tentativo di salvare il vecchio amico, Arseniev lo condusse a casa sua in città. Ma il fiero esploratore non poteva accettare d’invecchiare come un uomo comune e decise di tornare alle sue selvagge foreste, separandosi per sempre dal suo grande amico. Tratto dai due libri di viaggio del vero Vladimir K. Arseniev (“Dersu Uzala” e “Nel profondo Ussuri”), è un meraviglioso poema epico sul rapporto tra l’uomo e la natura. Denso di lirismo poetico e di mistico panteismo, è un’elegia sinfonica naturale in cui tutti gli elementi sono in assoluta armonia reciproca. Straordinario il personaggio di Dersu Uzala, un tenero omino che vive in simbiosi spirituale con la natura selvaggia, di cui è parte integrante, interpretato con incredibile immedesimazione dall’attore non professionista Maksim Munzuk. Tra poesia, etica, spiritualità e sentimento, Kurosawa realizza una formidabile ode ecologica, rigenerante per la sua capacità di volare alto, celebrando la magia degli spazi sterminati, il fascino delle terre selvagge e la grande forza dell’amicizia. Dersu Uzala è un possente film d’avventura e d’iniziazione, visivamente indimenticabile, ma è anche un inno travolgente alla solidarietà umana ed ai buoni sentimenti, nell’accezione più limpida e meno retorica del termine. E’anche il film che ha segnato il ritorno dell’autore al grande cinema, dopo un periodo di profonda crisi artistica ed umana che lo aveva condotto sull’orlo della depressione. La forza visiva con cui Kurosawa esplora gli splendidi scenari siberiani, denota uno sguardo affascinato, ricolmo di una gioia quasi infantile per come riesce a catturare i colori, i suoni e lo spirito della tundra. Quello spirito, sacro ed arcano, che ha iniziato ad abbandonare il vecchio “lupo” Uzala dopo che questi ha dovuto uccidere la tigre per salvare il capitano Arseniev, infrangendo così il suo patto panteistico con la natura e scegliendo, irreversibilmente, di appartenere al mondo degli uomini. Va citata la memorabile scena della tormenta di neve, rimasta a pieno diritto nella storia del cinema. La pellicola fu premiata con l’Oscar al miglior film straniero nel 1976 e riconfermò l’estrema vitalità artistica di un Maestro di cinema come Kurosawa, tra i più grandi in assoluto, capace di reinventarsi a 65 anni e costretto a cercare coproduzioni estere per continuare a regalarci i suoi inimitabili capolavori. Capolavori come questo enorme affresco siberiano, che ci tocca il cuore e ci ammalia ad ogni visione.

Voto:
voto: 5/5

L'idiota (Hakuchi, 1951) di Akira Kurosawa

Kameda è un puro di cuore, un inetto che si disinteressa al denaro e alla ricchezza. Soffre di un grave disturbo psichico (demenza epilettica), provocato da uno shock subito durante la guerra, quando fu condotto, per errore, davanti al plotone d’esecuzione, per poi essere salvato all’ultimo momento. Akama è un uomo violento e immorale, che conosce Kameda durante un viaggio ad Hokkaido. I due uomini s’innamoreranno della stessa donna, la bella Taeko, e la cosa avrà conseguenze tragiche. Straordinaria trasposizione di Kurosawa di uno dei capolavori assoluti della letteratura mondiale, “L'idiota” di Fëdor Dostoevskij, lo scrittore più amato dal grande regista giapponese. Kurosawa sposta l’azione del romanzo dalla Russia aristocratica di fine ‘800 al nord del Giappone del primo dopoguerra, scegliendo come ambientazione la ricca borghesia mercantile. Come nel libro i due protagonisti maschili, egregiamente interpretati da Masayuki Mori e Toshiro Mifune, incarnano il tema del “doppio”, moderni Caino e Abele, due facce diverse della follia. La follia bonaria di Kameda e quella crudele di Akama. Il regista intendeva realizzare un film di quattro ore e mezza diviso in due parti, ma le lunghe divergenze con la produzione lo costrinsero ad un unico film ridotto a due ore e quarantacinque minuti. Purtroppo i tagli imposti dalla casa produttrice Shochiku sono andati perduti per sempre. Alla sua uscita fu un fiasco clamoroso, stroncato da tutta la critica giapponese, per essere poi rivalutato, qualche anno dopo, in seguito alla vittoria del Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia di Rashomon. L’adesione di Kurosawa al testo (sacro) di Dostoevskij, se apparentemente infedele nella forma, è addirittura pedissequa nello spirito dell’opera, riprodotto con rigore maniacale nel profondo scavo psicologico dei personaggi, nella verbosità plateale, nella tragica solennità, nelle atmosfere austere accentuate dalle musiche di Fumio Hayasaka. Lo sfasamento geografico, temporale e sociale, causato dalle modifiche apportate dal regista alle ambientazioni della vicenda, produce un meraviglioso effetto straniante che trova il massimo tripudio artistico nelle scene nevose sui ghiacci di Sapporo. In questo scenario candido, asettico, che simboleggia la purezza di spirito di Kameda, il film assume un tono onirico, allucinato, simbolicamente agghiacciante. E la tragedia che si compie nella memorabile sequenza finale diventa di altezza universale, assoluta, irreversibile. Kurosawa ricrea il capolavoro di Dostoevskij, rispettandone l’anima ma rivestendone la forma di nuova linfa, di puro genio visionario, di vibrante intensità drammatica. E’ uno dei rari casi di adattamento letterario fedele ma autonomo. Il grande regista russo Tarkovskij rese un esplicito omaggio a questo film dicendo:  adoro Dostoevskij, ma non filmerò mai L'idiota dopo Kurosawa”.

Voto:
voto: 5/5

Anatomia di un rapimento (Tengoku to jigoku, 1963) di Akira Kurosawa

Uno studente in medicina vuol rapire il figlio di un ricco industriale, Kingo Gondo, ma, per errore, rapisce il figlio del suo autista. Gondo, in procinto di acquisire il pacchetto azionario di maggioranza della società a cui ambiva da sempre, decide lo stesso di pagare l’ingente riscatto, rinunciando alla sua scalata imprenditoriale e dimostrando grande nobiltà d’animo. Intanto la polizia si mette sulle tracce del rapitore, ma l’indagine sarà pericolosa. Primo noir di Kurosawa, celebre “saccheggiatore” di generi occidentali, tratto dal romanzo “Due colpi in uno” di Ed McBain. Nelle pieghe di un poliziesco nero, diretto con impeccabile rigore formale dal Maestro giapponese, si cela un cupo apologo etico sul potere del male e sulle misteriose connessioni che regolano il destino degli uomini. E’ un film costruito sul contrasto tra opposti: bene e male, ricchezza e miseria, vittime e carnefici, inferno e paradiso. La seconda parte, straordinaria, adatta la materia del romanzo ispiratore alla realtà giapponese, diventando una lucida riflessione sulla lotta di classe in cui la distinzione tra buoni e cattivi è così sfumata da risultare di ardua catalogazione. Memorabile e straniante la sequenza della visita nei bassifondi di Tokyo, nei quartieri della droga, con l’irruzione notturna nella casa sulla collina. Tra l’altro il sottofondo musicale di questa scena è la celebre canzone italiana “O sole mio”. Ma anche il viaggio in treno ed il confronto finale tra Gondo e il rapitore sono momenti di grande impatto emotivo. Toshiro Mifune, nel ruolo di Gondo, è, come al solito, eccellente. Anatomia di un rapimento è stato il primo film in bianco e nero in cui compare un dettaglio a colori, il fumo rossastro di una ciminiera industriale. Questo particolare vezzo stilistico è stato poi imitato da moltissimi registi come, ad esempio, Spielberg e Coppola.

Voto:
voto: 4/5

La sfida del samurai (Yojinbo, 1961) di Akira Kurosawa

Sanjuro, samurai senza padrone, arriva in un villaggio insanguinato dalla lotta tra due clan rivali. Con un’abile strategia di doppi giochi, il nostro riesce a porsi al servizio prima dell’una e poi dell’altra fazione, diventando il baricentro di un machiavellico meccanismo che farà sì che i due contendenti si distruggano a vicenda. Grande classico del cinema di Kurosawa, potente film d’azione violenta dal ritmo agile, mitigato da perfida ironia corrosiva. E’ un film che conferma il talento visivo e narrativo del regista e ne consolida lo status di grande autore internazionale, apprezzato in tutto il mondo. Forse ispirato dal goldoniano “Arlecchino servitore di due padroni”, divenne famosissimo in Italia a causa della disputa legale tra Kurosawa e Sergio Leone, accusato dal Maestro giapponese di avere spudoratamente copiato il suo film con il celebre Per un pugno di dollari, padre dello spaghetti western ed enorme successo mondiale. Come è noto Kurosawa vinse la causa, ottenendo i diritti esclusivi di distribuzione del film italiano nel sud est asiatico e il 15% dei suoi incassi worldwide. Il gusto grottesco che pervade l’opera ne spegne ogni enfasi retorica e raffredda la materia narrativa eliminando qualunque forma di eroismo. Così i cattivi appaiono come dei balordi che hanno conseguito il loro potere grazie alla furbizia, mentre il guerriero solitario (impersonato dal solito grande Toshirô Mifune) non agisce per nobili scopi o per proteggere i più deboli, ma solo per affermare la propria superiorità. Il samurai scaltro e amorale di questo film ha costituito il modello per tutta una serie di cinici anti-eroi ad esso ispirati, a cominciare dal pistolero senza nome del film di Leone, interpretato da Clint Eastwood. Dal punto di vista stilistico è un’opera di assoluto rilievo tecnico per le tecniche di ripresa utilizzate dal regista (come le vorticose carrellate che ammiccano al grande western epico fordiano), per il montaggio espressivo che dona alla narrazione un’alta densità drammatica e per l’incredibile dinamismo conferito alle scene d’azione. Il personaggio di Sanjuro, sempre interpretato da Mifune, tornerà l’anno successivo nel film omonimo, ancora con regia di Kurosawa, in una sorta di sequel di Yojinbo. Nel 1996 Walter Hill ne ha diretto un remake ufficiale, il gangster movie Ancora vivo. In giapponese Yojinbo significa guardia del corpo.

Voto:
voto: 4/5

La fortezza nascosta (Kakushi-toride no san-akunin, 1958) di Akira Kurosawa

Nel Giappone feudale dilaniato dalla guerra civile, due contadini vengono reclutati da un samurai per scortare una giovane principessa attraverso il territorio occupato dalle forze nemiche. I quattro dovranno trasportare anche un prezioso carico d’oro, opportunamente nascosto in un cumulo di rami secchi. Splendido dramma storico raccontato con tono leggero, grazie a tocchi d’ironia grottesca, sotto forma di grande avventura picaresca dai risvolti epici. Come una sottile fiaba itinerante, ispirata al teatro kabuki, il film procede in un crescendo di azione e di umorismo, parafrasando il romanzo cavalleresco e le novelle eroicomiche di più bassa estrazione popolare. L’inevitabile lieto fine assume il senso di un percorso iniziatico per la principessa Yuki, passata da ragazzina capricciosa e ribelle alla vita reale di corte, attraversando prima le diverse trappole della vita. Con un’estrema attenzione a tutti i personaggi, Kurosawa delinea abilmente la psicologia del generale interpretato dal fido Toshirô Mifune, analogamente a quella della principessa o dei due contadini, donando a tutti il medesimo risalto. Tutta da gustare la bella sequenza del duello tra Mifune e Susumu Fujita, che possiede anche un forte valore simbolico. Infatti Fujita era l’attore d’azione dei primi film del regista, poi sostituito proprio da Mifune. George Lucas ha sempre dichiarato di essersi notevolmente ispirato a questo film nello scrivere la sceneggiatura del primo Star Wars.

Voto:
voto: 4/5

Vivere (Ikiru, 1952) di Akira Kurosawa

Un vecchio funzionario comunale, Kanji Watanabe, malato terminale di cancro, si adopera per bonificare una zona paludosa e farci costruire un parco giochi per bambini. Avendo solo un anno di vita impegna tutto se stesso in quest’ultimo atto decoroso, capace di dare un senso ai suoi ultimi giorni. Riuscirà nell’impresa grazie alla sua tenace dedizione ma, dopo la sua morte, nessuno sembra più ricordarsi di lui, tranne le madri dei bimbi per cui l’anziano si è tanto battuto. Capolavoro di Kurosawa, possente affresco sulla vecchiaia, sulla solitudine umana di fronte alla morte e sul senso della vita. Intriso di poetico lirismo, di rigoroso realismo, di riferimenti cristologici, di suggestive metafore e con qualche tocco di amaro sarcasmo, è uno struggente dramma esistenziale, pieno di svolte narrative e di balzi temporali, che sembra ispirarsi alle opere letterarie di Dostoevskij, ma affine anche a certe tematiche dei film di Chaplin o di De Sica. Il complesso gioco di flashback che caratterizzano la pellicola creano un continuo slittamento del piano cronologico rispetto al flusso narrativo centrale, infrangendo così la regola della linearità diegetica, cosa assolutamente atipica per l’epoca. Nella malinconica analisi di una vita al tramonto, effettuata senza alcuna enfasi retorica, l’autore non perde occasione di dispensare graffi satirici alla burocrazia del suo paese, lenta, macchinosa e incapace di stare al passo con i reali bisogni della gente. L’inesorabile senso di sconfitta che pervade il film è coerente al pessimismo del regista, ma viene messo in scena con tale asciutta solennità da conferire all’opera un senso assoluto, definitivo come la vita stessa. Straordinaria la sequenza della veglia funebre di Watanabe inframezzata dai flashback della sua vita, un mirabile collage stilistico proteso alla ricerca della verità sulla vicenda umana del protagonista. Quella verità che in Rashōmon era sfuggente ed inaccessibile, mentre qui assume la forma di una mesta presa di coscienza da parte dei colleghi di Watanabe. Vivere è un’altissima opera d’impegno morale, che denuncia l’indifferenza e che ci parla di possibilità inespresse, di occasioni perdute, ma anche di militanza sociale, di mobilitazione etica, volta a trovare una parvenza di senso al nostro “vivere”. Il finale aspro, fortemente voluto dall’autore, sembra rendere vano il sacrificio del protagonista, eppure garantisce una concreta continuità dell’impegno sopra citato, con l’esplicito riferimento ai bambini, il futuro del mondo. Il protagonista Takashi Shimura, attore feticcio del regista, ci regala un’altra interpretazione memorabile nei panni dell’anziano Watanabe. Capace di reggere lunghi primi piani con espressioni di assoluta intensità emotiva, Shimura si conferma interprete sensibile e capace di trasmettere una carica di profonda umanità. Il film è rimasto inedito in Italia fino al 1986, quando venne recuperato grazie a una retrospettiva sul grande Maestro giapponese.

Voto:
voto: 5/5

L'angelo ubriaco (Yoidore tenshi, 1948) di Akira Kurosawa

Nei bassifondi della Tokyo post bellica, un gangster, Matsunaga, scopre di essere malato di tubercolosi. Inizialmente restio a curarsi, a causa del suo orgoglio che gli impedisce di ammettere ogni forma di debolezza, sarà convinto dalla perseveranza del dottor Sanada, un medico alcolizzato carico di profonda umanità. Tra i due uomini, così diversi, nascerà una strana ma sincera amicizia che però non riuscirà a salvare lo scriteriato Matsunaga, condannato dalla sua stessa vita criminale dedita al pericolo. Primo capolavoro del Maestro giapponese e film spartiacque della sua filmografia. Kurosawa traccia un affresco vivido e memorabile del disordine in cui versava il suo paese dopo la tragica fine della seconda guerra mondiale, con questo film magistrale, pervaso da suggestioni noir, che richiama fortemente, per confezione estetica, il neorealismo italiano. La pellicola ebbe un’enorme influenza sul cinema giapponese dell’epoca e fu acclamata da tutti i critici che la paragonarono, per stile, portata e tematica, al capolavoro di De Sica Ladri di biciclette. Il tema dell’amicizia virile (che è uno dei topoi classici dell’autore) assume qui la forma di un rapporto di amore-odio tra due perdenti, un rapporto conflittuale ma anche pregno di stima e di rispetto reciproco, latore di una flebile luce di speranza per il riscatto sociale di un paese devastato. I due attori, entrambi straordinari, Takashi Shimura e l’esordiente Toshirō Mifune, diventeranno poi icone viventi del cinema di Kurosawa. In particolare Mifune, qui già carismatico nonostante la giovane età, saprà imporsi con talento ed autorevolezza fino a diventare una star mondiale. Splendida la metafora dello stagno, il venefico acquitrino posto vicino allo studio medico di Sanada, che simboleggia il degrado morale di un Giappone annientato, nello spirito oltre che nel corpo, dalla guerra appena conclusa. Un paese allo sbando, incapace di reagire, ferito nel proprio orgoglio, afflitto dalla miseria e corroso da facili tentazioni deprecabili come il crimine e la prostituzione. In tal senso va letto il significato emblematico della tubercolosi che affligge Matsunaga, un male subdolo che erode il fisico dall’interno, tracciando un’ideale sovrapposizione tra il gangster e il suo paese. Memorabile la scena del sogno di Matsunaga, che vede il suo doppio che cerca di tirarlo dentro una bara, un’inquietante visione di morte affine al cinema di Bergman. L’edizione italiana dell’opera risulta danneggiata da una serie di maldestre modifiche apportate all’impianto sonoro di molte scene, pertanto è consigliabile vedere il film in lingua originale con sottotitoli.

Voto:
voto: 4,5/5

Quelli che camminavano sulla coda della tigre (Tora no o wo fumu otokotachi, 1945) di Akira Kurosawa

Nel XII secolo, durante la guerra tra due clan rivali, un gruppo di valorosi samurai cerca di condurre in salvo il principe erede al trono attraverso il territorio nemico. Guidati dal saggio Benkei dovranno ricorrere a dei travestimenti, i samurai da monaci e il principe da servo, per sperare di uscirne vivi. Per recitare fino in fondo la sua parte e sfuggire ad un posto di guardia, Benkei sarà costretto a infrangere il rigido codice etico del suo ordine guerriero. Quarto film di Kurosawa, girato a basso costo e con mezzi esigui. L’intenzione iniziale del regista era di realizzare un film sulla figura del grande condottiero giapponese Oda Nobunaga, a cui trentacinque anni dopo dedicherà Kagemusha - L'ombra del guerriero, ma la mancanza di risorse produttive lo fece propendere per una storia più piccola e semplice. Ispirato a due versioni teatrali del medesimo dramma (“Kanjincho” e “Ataka”) è il primo film del Maestro sulla nobile figura del samurai, elemento caratterizzante della cultura giapponese e di tutto il suo cinema del periodo classico. Denso e teso nella sua essenzialità, è un sontuoso dramma storico, sorretto da eccellenti interpretazioni da parte di tutti gli interpreti, che anticipa già temi e stilemi del successivo capolavoro I sette samurai. Dal punto di vista semantico è un mirabile apologo sul potere dell’uomo, contrapposto a quello dei dogmi sanciti dalle tradizioni limitanti. Invece dal punto di vista estetico risente chiaramente della sua vicinanza all’epoca del cinema muto, per l’utilizzo costante dei primi piani con finalità espressionista. Il personaggio clownesco del contadino portatore, voluto dall’autore per fare da contrasto comico alla rigidità dei samurai, è quello che intuisce le azioni da compiere prima degli altri, riuscendo, grazie alla sua semplicità d’animo, a leggere gli eventi senza filtri o preconcetti. Splendido il finale ambiguo che lascia il campo aperto a nuovi imprevedibili scenari. La pellicola fu bloccata dalla censura americana per la sua presunta esaltazione del feudalesimo giapponese e venne distribuita negli Stati Uniti solo nel 1952.

Voto:
voto: 4/5

mercoledì 30 marzo 2016

La passione di Cristo (The Passion of the Christ, 2004) di Mel Gibson

Le ultime 12 ore di vita di Gesù di Nazareth: dall’orto degli ulivi al bacio di Giuda, dal processo sommario davanti ai saggi del Sinedrio al giudizio del governatore romano Ponzio Pilato, dalla flagellazione alla crocifissione, fino alla morte sul Golgota. Al di là di ogni credo religioso e di qualunque posizione morale credo sia indiscutibile affermare che La passione di Cristo sia stato, nel bene e nel male, l’evento cinematografico dell’anno 2004. Osteggiato e controverso già durante le fasi della lavorazione, dove erano trapelate chiaramente le intenzioni e le scelte estreme del discusso regista americano, il film ha spaccato in due critica e pubblico, ha generato dibattiti accessi creando fazioni opposte anche negli stessi cattolici, è stato bandito dagli ebrei con accuse di antisemitismo e, a tutt’oggi, non riesce a produrre un punto di vista moderato. Nonostante tutto questo (anzi, proprio grazie a tutto questo) è stato un clamoroso successo economico, soprattutto in America dove ha sbancato i botteghini polverizzando tutti i record precedenti e generando curiosi fenomeni di fanatismo popolare. Al di là di tutta questa enfasi (chiaramente esagerata) va detto che si sta parlando semplicemente di un film, un prodotto “artistico” che porta sullo schermo una visione soggettiva (quella del regista) e, mai come in questo caso, sarebbe opportuno parlare di “passione di Gibson”.  Girato interamente in Italia (tra la pasoliniana Matera e gli studi di Cinecittà), recitato nelle lingue originali del tempo (aramaico e latino), ma opportunamente sottotitolato per rendere meno ostica la visione, presentato come il più realistico film sul Cristo mai realizzato, è un classico esempio di furba operazione commerciale perfettamente riuscita, travestita da “documentario” religioso. Gibson si è ispirato ai quattro vangeli ufficiali, ai controversi diari della mistica tedesca Anna Katharina Emmerick, all’iconografia cattolica popolare ed alla sua fantasia di (presunto) credente in odore di integralismo cristiano. Il risultato finale è un efferato concentrato di sangue, violenza e dolore inteso a suscitare l’inevitabile shock dello spettatore. Uno shock tanto più forte e disturbante, visto che l’oggetto di tanto accanimento splatter è il corpo di Gesù Cristo. Senza lasciare nulla all’immaginazione l’autore, fedele alla sua estetica dell’esibizione cruenta, ci immerge in un tripudio di sequenze sadiche, durante le quali il corpo di Cristo viene letteralmente maciullato, con una ferocia che sa di morboso. La fede, la mistica, la compassione, il rivoluzionario messaggio contenuto nelle parole di Cristo, l’anima della sua dottrina, sono praticamente assenti e non bastano un paio di flashback sparsi qua e là per evocarli. Come prova evidente di questa tesi basti solo citare i due minuti scarsi di resurrezione (nel finale) rispetto ai quindici (insostenibili) della flagellazione, la cui compiaciuta insistenza vira, evidentemente, nel sadismo. Al di là di ogni moralismo è un film bieco, che ha poco a che spartire con il religioso e che ha spettacolarizzato nel modo più crudele il dolore del Cristo per scopi puramente commerciali. Insomma un grande bluff, tra l’altro perfettamente riuscito visto che sono stati in tanti ad abboccare. Dal punto di vista strettamente cinematografico la pellicola ha i suoi indubbi meriti tecnici: una fotografia molto espressiva, delle scenografie ben curate, delle musiche di potente suggestione, un trucco straordinario ed alcuni virtuosismi registici pregevoli ma autoreferenziali. La scena migliore, assolutamente magistrale, è il prologo nel Getsemani, che ha delle inquietanti atmosfere horror e contiene momenti di grande cinema. Il presunto “realismo” sbandierato dall’autore può essere facilmente smontato elencando la miriade di errori, inesattezze, omissioni e licenze sia dal punto di vista filologico (i Vangeli ufficiali) sia da quello strettamente storico. Nel cast, in gran parte italiano, vanno citati Jim Caviezel (encomiabile per la sua totale adesione fisica alla violenta visione di Gibson), Maia Morgenstern, Monica Bellucci, Rosalinda Celentano, Sergio Rubini, Claudia Gerini. La bufala messa in giro dai distributori, alla vigilia dell’uscita italiana del film, secondo cui papa Wojtyła, dopo averlo visto, avrebbe approvato dicendo “è stato veramente così”, è l’emblema perfetto di ciò che la pellicola è. Un grande bluff architettato con lungimirante preveggenza. E’ paradossale notare come questo film innaturalmente spietato sia stato realizzato da uno sbandierato credente e che, di contro, un non credente, costantemente nel mirino dei cattolici, come Pasolini abbia dato vita al miglior film sul Cristo mai realizzato: Il vangelo secondo Matteo. Come a dire: “scherza coi fanti e lascia stare i santi”. Chi vuol capire, capisca.
 
La frase:mutate flagellum!

 
Voto:
voto: 2,5/5