martedì 15 marzo 2016

Via Da Las Vegas (Leaving Las Vegas, 1995) di Mike Figgis

Ben è un uomo distrutto, alcolista allo stadio terminale che ha perso famiglia, lavoro e dignità. Va a Las Vegas per suicidarsi con l’abuso di alcol ed incontra Sara, escort disperata e presa a calci dalla vita, anima persa come lui. I due si amano con sincera intensità ma in modo platonico, perché lui è così minato nel fisico da esser diventato impotente. Ma può l’amore cambiare il corso di un destino che sembra già segnato? Cupo dramma sentimentale di Mike Figgis, che dirige con innegabile furbizia il triste incontro di due solitudini nella città delle mille luci, tra repentini stacchi di montaggio ed un cromatismo esasperato che ne mette in risalto lo scintillio dei grandi alberghi ed i tramonti fiammeggianti, come da cliché-cartolina. Ben e Sara sono due reietti, due esseri umani allo sbando, desolatamente ai margini di quel sogno americano che viene invece incarnato dal teatro del loro incontro: la città dei sogni, del vizio e del gioco, la città nel deserto simbolo perenne della vanità umana, Las Vegas. Questo piccolo film indipendente, girato con un budget esiguo, è un mesto cupio dissolvi, depresso e introverso, che ci conduce per mano verso un finale ineluttabile. Esile nella trama e dimesso nei toni, è sufficientemente ruffiano nella confezione, fedele a quella retorica del dolore che tanto piace agli americani, da entrare immediatamente nelle grazie dell’Academy Awards. In patria ha avuto larghi consensi di critica e pubblico, ma resta un prodotto ampiamente sopravvalutato. Delle quattro candidature ricevute (due a Figgis, per regia e sceneggiatura, e due agli attori protagonisti) ha vinto Nicolas Cage, con una certa generosità da parte dei giurati, grazie a un’interpretazione accademica e costantemente sopra le righe, una di quelle performance “acchiappa premio”. Avrebbe invece meritato la vittoria l’intensa Elisabeth Shue, con una prova di alto registro drammatico e di grande disponibilità fisica. Bello e struggente il commento musicale, curato dallo stesso regista, soprattutto per merito di alcuni blues di Sting che sanno garantire vibranti atmosfere nelle scene madri. Il film è purtroppo macchiato da un’ombra sinistra: è tratto dal romanzo omonimo di John O'Brien che si tolse la vita, a soli 34 anni, subito dopo aver appreso che il suo libro sarebbe stato adattato per il cinema.

Voto:
voto: 3/5

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