lunedì 21 marzo 2016

Elephant (Elephant, 2003) di Gus Van Sant

Il 20 aprile 1999 due giovani studenti fecero irruzione, armati di tutto punto, nella Columbine High School di Littleton (Colorado), compiendo un massacro tra allievi e professori, 13 morti e 24 feriti, per poi togliersi la vita prima di essere catturati dalle forze dell’ordine. Elephant di Gus Van Sant è liberamente ispirato a quella vicenda, di cui ricostruisce la drammatica giornata cruciale con la dovizia di un documentario e la freddezza asettica di un referto medico. Con una messa in scena glaciale il grande regista di Louisville asciuga all’inverosimile ogni concessione all’enfasi spettacolare, regalandoci un ritratto agghiacciante, conciso, ipnotico, quasi ovattato nelle cruente sequenze della strage. Con l’approccio distaccato di una commissione scientifica l’autore ci racconta i fatti nudi e crudi, mostrandoci il come ma non il perché, rinunciando volutamente ad ogni spiegazione, ad ogni tentativo di analisi sociale o di ricerca delle motivazioni. I due killer, Alex ed Eric, sono ragazzi di buona famiglia dall’aspetto comune, che trascorrono la loro giornata tra pianoforte, videogame violenti, documentari sui nazisti e culto delle armi, che acquistano su internet con impressionante facilità. Fanno ciò che fanno senza un motivo apparente, quasi per inerzia, figli maledetti di una sottocultura della violenza, dell’intolleranza e del disagio esistenziale. Il film è lucidamente amorale come lo sono i due assassini protagonisti e questo aumenta a dismisura la sua carica scioccante. E’ un maglio allo stomaco che lascia lo spettatore atterrito, perché ci mostra la banalità del male in tutto il suo orrore ed in questo risiede l’etica sotterranea della sua amara denuncia. Non c’è catarsi, non ci sono rassicurazioni, né analisi sociologiche, Van Sant ci immerge, con stile dinamico e realistico, tra camera a mano e lunghi piani sequenza, nella giornata del massacro afferrandoci alla gola, per poi lasciarci andare nelle sequenze finali che rivolgono lo sguardo al cielo. I personaggi sono ordinari, tipici adolescenti di un qualunque ambiente di scuola superiore: la secchiona occhialuta, le tre ochette dissolute, il biondino con la maglietta gialla. La macchina da presa li pedina incessante, quasi sempre di spalle, mentre percorrono gli spazi abituali di un giorno come tanti, che però poi non sarà tale. Lo stile ellittico ci mostra più volte le medesime sequenze da punti di vista differenti, a seconda del soggetto che viene “pedinato”, dando vita ad un rituale quasi irreale, che in breve diverrà terribile e doloroso, folle ma di una follia lucida, e, proprio per questo, più spaventosa. Con questo approccio “chirurgico” il regista riesce ad ottenere il necessario distacco dagli eventi narrati e riconfigura il concetto stesso di cinema indipendente americano con quest’opera straordinaria, assoluta, la quintessenza del racconto di cronaca. Un capolavoro di straniante sospensione morale, che si concede omaggi a Kubrick nella scelta di Beethoven come contrappunto musicale, e che preferisce un composto silenzio nei terrificanti momenti della carneficina, in cui, e in questo si può evidenziare l’unica traccia di “pietà” da parte dell’autore, l’occhio della camera sceglie di abbandonare i corpi inerti delle vittime, lasciandoli andare dopo averli a lungo pedinati. Il Festival di Cannes gli ha conferito un’accoglienza trionfale con i due premi principali, Palma d’Oro e miglior regia, infrangendo per esso una regola finora sempre rispettata, ovvero di non concedere i due massimi tributi alla stessa pellicola. Il titolo enigmatico allude ad un vecchio proverbio statunitense: l’elefante nella stanza, come simbolo di un problema enorme che però si decide di non vedere. Come tutti i grandi Van Sant non dice ma allude, non giudica ma lascia a noi le dovute riflessioni. Nel suo film egli non affronta mai il problema delle armi nella cultura americana, ma lascia che sia il titolo ad esprimere, metaforicamente, il suo pensiero. Chi deve intendere, intenda.

Voto:
voto: 5/5

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