Il 20 aprile 1999 due giovani studenti
fecero irruzione, armati di tutto punto, nella Columbine High School di
Littleton (Colorado), compiendo un massacro tra allievi e professori, 13 morti
e 24 feriti, per poi togliersi la vita prima di essere catturati dalle forze
dell’ordine. Elephant di Gus Van Sant
è liberamente ispirato a quella vicenda, di cui ricostruisce la drammatica
giornata cruciale con la dovizia di un documentario e la freddezza asettica di
un referto medico. Con una messa in scena glaciale il grande regista di Louisville
asciuga all’inverosimile ogni concessione all’enfasi spettacolare, regalandoci
un ritratto agghiacciante, conciso, ipnotico, quasi ovattato nelle cruente
sequenze della strage. Con l’approccio distaccato di una commissione
scientifica l’autore ci racconta i fatti nudi e crudi, mostrandoci il come ma
non il perché, rinunciando volutamente ad ogni spiegazione, ad ogni tentativo
di analisi sociale o di ricerca delle motivazioni. I due killer, Alex ed Eric,
sono ragazzi di buona famiglia dall’aspetto comune, che trascorrono la loro
giornata tra pianoforte, videogame
violenti, documentari sui nazisti e culto delle armi, che acquistano su
internet con impressionante facilità. Fanno ciò che fanno senza un motivo
apparente, quasi per inerzia, figli maledetti di una sottocultura della
violenza, dell’intolleranza e del disagio esistenziale. Il film è lucidamente
amorale come lo sono i due assassini protagonisti e questo aumenta a dismisura
la sua carica scioccante. E’ un maglio allo stomaco che lascia lo spettatore
atterrito, perché ci mostra la banalità del male in tutto il suo orrore ed in
questo risiede l’etica sotterranea della sua amara denuncia. Non c’è catarsi,
non ci sono rassicurazioni, né analisi sociologiche, Van Sant ci immerge, con
stile dinamico e realistico, tra camera a mano e lunghi piani sequenza, nella
giornata del massacro afferrandoci alla gola, per poi lasciarci andare nelle
sequenze finali che rivolgono lo sguardo al cielo. I personaggi sono ordinari,
tipici adolescenti di un qualunque ambiente di scuola superiore: la secchiona occhialuta,
le tre ochette dissolute, il biondino con la maglietta gialla. La macchina da
presa li pedina incessante, quasi sempre di spalle, mentre percorrono gli spazi
abituali di un giorno come tanti, che però poi non sarà tale. Lo stile
ellittico ci mostra più volte le medesime sequenze da punti di vista
differenti, a seconda del soggetto che viene “pedinato”, dando vita ad un
rituale quasi irreale, che in breve diverrà terribile e doloroso, folle ma di
una follia lucida, e, proprio per questo, più spaventosa. Con questo approccio
“chirurgico” il regista riesce ad ottenere il necessario distacco dagli eventi
narrati e riconfigura il concetto stesso di cinema indipendente americano con
quest’opera straordinaria, assoluta, la quintessenza del racconto di cronaca. Un
capolavoro di straniante sospensione morale, che si concede omaggi a Kubrick nella
scelta di Beethoven come contrappunto musicale, e che preferisce un composto
silenzio nei terrificanti momenti della carneficina, in cui, e in questo si può
evidenziare l’unica traccia di “pietà” da parte dell’autore, l’occhio della
camera sceglie di abbandonare i corpi inerti delle vittime, lasciandoli andare
dopo averli a lungo pedinati. Il Festival di Cannes gli ha conferito
un’accoglienza trionfale con i due premi principali, Palma d’Oro e miglior
regia, infrangendo per esso una regola finora sempre rispettata, ovvero di non
concedere i due massimi tributi alla stessa pellicola. Il titolo enigmatico
allude ad un vecchio proverbio statunitense: l’elefante nella stanza, come
simbolo di un problema enorme che però si decide di non vedere. Come tutti i
grandi Van Sant non dice ma allude, non giudica ma lascia a noi le dovute
riflessioni. Nel suo film egli non affronta mai il problema delle armi nella
cultura americana, ma lascia che sia il titolo ad esprimere, metaforicamente,
il suo pensiero. Chi deve intendere, intenda.
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