venerdì 18 marzo 2016

La pianista (La pianiste, 2001) di Michael Haneke

Erika è una maestra di piano viennese. Donna rigida, bigotta borghese, masochista e sessualmente frustrata, che sfoga le sue repressioni con pratiche voyeuristiche, tra sale porno e peep show. Vessata da una madre assillante, da cui cerca invano di liberarsi, avvia una morbosa relazione con un giovane allievo, basata su giochi perversi di sottomissione sessuale. Incapace di amare e di vivere rapporti normali, Erika sembra avviata verso un pericoloso percorso di perdizione. Il sesto film di Haneke, tratto da un romanzo di Elfriede Jelinek, è un affresco spietato, esasperato e sarcastico dell’alta borghesia austriaca, ritratta con una sgradevolezza morale che è pari soltanto alla glaciale misantropia del suo autore. Potente ed austero nella sua cruenta analisi sociale, magistrale dal punto di vista tecnico e cucito addosso alla sua straordinaria protagonista, Isabelle Huppert in una performance di altissimo spessore drammatico, è un agghiacciante trattato psicopatologico sulla perversione, sul lato oscuro che si nasconde dietro la patina impeccabile del conformismo borghese. Con un montaggio frammentato e continuamente interrotto, il maestro austriaco ci presenta un’umanità in disfacimento, votata all’autodistruzione, irrimediabilmente giunta al capolinea. Le atmosfere opprimenti ricordano quelle di Funny Games e l’aderenza della Huppert al suo personaggio è così feroce che lascia disarmati, quasi atterriti. Strutturato come uno straniante concerto musicale, con le “sacre” melodie di Schubert, Schumann e Beethoven a fare da contrappunto alle scappatelle depravate di Erika, è anche una mordace riflessione sul rapporto tra arte e libertà, tra controllo ed emozione, tra disciplina ed istintività, tra ambizione e frustrazione. L’arte ci appare qui come concausa dell’oppressione interiore, come blocco castrante che ha minato nel profondo la psiche e la sessualità della protagonista, originando in essa nevrosi profonde e depravazioni latenti. In questo kammerspiel di assoluta violenza psicologica, lo scandaglio analitico del regista assume toni impietosi, grotteschi, con la totale messa a nudo dell’angoscia interiore della protagonista. Un’angoscia che la divora implacabile dall’interno, pur senza eroderne mai la fredda maschera inappuntabile. I corpi, gli strumenti musicali, gli ambienti, i dettagli scenici vengono mostrati con uno stile inerte, sospeso, quasi immobili ed immersi in una trance ipnotica. Ciò rende alla perfezione il rigido immobilismo delle giornate sempre uguali di Erika, una depressa cronica in eterno conflitto con la realtà, che odia profondamente il suo mondo, i suoi alunni, la sua stessa madre, pur senza mai recedere dall’apparente compostezza formale, vittima e carnefice di se stessa. Il film ha ricevuto tre premi al 54° Festival del Cinema di Cannes: quello speciale della giuria, quello alla migliore attrice e quello al miglior attore. Bellissimo e terribile, è un capolavoro scomodo, spiazzante, sardonico, nero come il buio della notte. Il buio in cui Erika sembra svanire nello splendido finale ambiguo.

Voto:
voto: 5/5

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