venerdì 18 marzo 2016

Lo scafandro e la farfalla (Le scaphandre et le papillon, 2007) di Julian Schnabel

Jean-Dominique Bauby è un quarantenne affermato, caporedattore di una rivista femminile, convivente con la bella Céline, da cui ha avuto due figli, e non insensibile al fascino delle altre donne. Ma, un giorno, la sua vita precipita nel dramma quando, colpito da ictus cerebrale, cade in coma e resta totalmente paralizzato. Il devastante effetto del grave malore, chiamato condizione “locked-in”, è la totale disconnessione del cervello dal resto dal corpo, al punto che Jean-Do, pur in grado di pensare e di provare emozioni, non è più capace di muoversi, di parlare e di comunicare con il mondo. Gli unici sensi che gli rimangono sono la vista, l’udito e il movimento della palpebra sinistra. Rinchiuso dentro un corpo ormai inerte (lo scafandro), quel semplice battito di ciglia sarà il solo modo per stabilire un codice di comunicazione con gli altri, cercando così di liberare le proprie emozioni interne (la farfalla). E in questo modo il coraggioso sventurato riuscirà addirittura a dettare un libro alla sua infermiera, il cui titolo è proprio quello del film, in cui racconta la sua drammatica esperienza. L’incredibile lavoro di “scrittura” durerà due anni e finirà poco prima della morte di Jean-Do. Accorato dramma sul dolore, sulla malattia e sulla dignità umana, tratto dalla vera storia di Jean-Dominique Bauby, interpretato con straziante efficacia dal bravo Mathieu Amalric, che prese il posto di Johnny Depp a cui era stato inizialmente affidato il ruolo. Il regista Schnabel cerca di limare gli aspetti patetici e gli eccessi melodrammatici, soffermandosi sul contrasto tra dentro e fuori, tra il meraviglioso del mondo interiore, capace di volare alto nei sogni e nei ricordi, e la disperazione di un immobile corpo vegetale che gli tarpa impietosamente le ali. La prima parte della pellicola è straordinaria nella sua angosciante claustrofobia, con il risveglio dal coma di Jean-Do e la lenta scoperta della sua tragica condizione, di cui ci viene offerta la disperata soggettiva con immagini sfocate, respiro affannoso e pensieri in voice over. E’ il momento migliore del film, che vale, già da solo, il prezzo del biglietto. Invece i continui stacchi tra la staticità della condizione del protagonista e gli esuberanti momenti onirici sono realizzati con troppa enfasi emotiva e con un’esasperata ricerca del virtuosismo tecnico, che tende a scadere nell’artificioso. Anche i frequenti flashback, che ci mostrano il Jean-Do ancora sano nei suoi momenti di vita normale, inciampano in abusi di facile commozione che sanno di ruffianeria sentimentale. Tra intensità e furbizie, finezze registiche e retorica, il film arriva in porto con dignitosa umanità, garantendo un accettabile livello artistico. E più dei funambolismi stilistici ne resterà il potente messaggio di attaccamento alla vita, il grido disperato di Jean-Do che reclama il suo inalienabile diritto di esistere, pur in una condizione così disperata. Il che non è male in un’epoca in cui si parla tanto di eutanasia e di diritto alla morte “pietosa”. La pellicola vinse il premio alla regia al Festival del Cinema di Cannes, due Golden Globe ed ebbe quattro nomination agli Oscar 2008 (regia, sceneggiatura, fotografia e montaggio).

Voto:
voto: 3,5/5

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