Jean-Dominique Bauby è un quarantenne
affermato, caporedattore di una rivista femminile, convivente con la bella Céline,
da cui ha avuto due figli, e non insensibile al fascino delle altre donne. Ma,
un giorno, la sua vita precipita nel dramma quando, colpito da ictus cerebrale,
cade in coma e resta totalmente paralizzato. Il devastante effetto del grave
malore, chiamato condizione “locked-in”,
è la totale disconnessione del cervello dal resto dal corpo, al punto che Jean-Do,
pur in grado di pensare e di provare emozioni, non è più capace di muoversi, di
parlare e di comunicare con il mondo. Gli unici sensi che gli rimangono sono la
vista, l’udito e il movimento della palpebra sinistra. Rinchiuso dentro un
corpo ormai inerte (lo scafandro), quel semplice battito di ciglia sarà il solo
modo per stabilire un codice di comunicazione con gli altri, cercando così di
liberare le proprie emozioni interne (la farfalla). E in questo modo il
coraggioso sventurato riuscirà addirittura a dettare un libro alla sua
infermiera, il cui titolo è proprio quello del film, in cui racconta la sua
drammatica esperienza. L’incredibile lavoro di “scrittura” durerà due anni e
finirà poco prima della morte di Jean-Do. Accorato dramma sul dolore, sulla
malattia e sulla dignità umana, tratto dalla vera storia di Jean-Dominique
Bauby, interpretato con straziante efficacia dal bravo Mathieu Amalric, che
prese il posto di Johnny Depp a cui era stato inizialmente affidato il ruolo.
Il regista Schnabel cerca di limare gli aspetti patetici e gli eccessi melodrammatici,
soffermandosi sul contrasto tra dentro e fuori, tra il meraviglioso del mondo
interiore, capace di volare alto nei sogni e nei ricordi, e la disperazione di
un immobile corpo vegetale che gli tarpa impietosamente le ali. La prima parte
della pellicola è straordinaria nella sua angosciante claustrofobia, con il
risveglio dal coma di Jean-Do e la lenta scoperta della sua tragica condizione,
di cui ci viene offerta la disperata soggettiva con immagini sfocate, respiro
affannoso e pensieri in voice over. E’
il momento migliore del film, che vale, già da solo, il prezzo del biglietto. Invece
i continui stacchi tra la staticità della condizione del protagonista e gli
esuberanti momenti onirici sono realizzati con troppa enfasi emotiva e con un’esasperata
ricerca del virtuosismo tecnico, che tende a scadere nell’artificioso. Anche i
frequenti flashback, che ci mostrano il Jean-Do ancora sano nei suoi momenti di
vita normale, inciampano in abusi di facile commozione che sanno di ruffianeria
sentimentale. Tra intensità e furbizie, finezze registiche e retorica, il film
arriva in porto con dignitosa umanità, garantendo un accettabile livello
artistico. E più dei funambolismi stilistici ne resterà il potente messaggio di
attaccamento alla vita, il grido disperato di Jean-Do che reclama il suo
inalienabile diritto di esistere, pur in una condizione così disperata. Il che
non è male in un’epoca in cui si parla tanto di eutanasia e di diritto alla
morte “pietosa”. La pellicola vinse il premio alla regia al Festival del Cinema
di Cannes, due Golden Globe ed ebbe quattro nomination agli Oscar 2008 (regia,
sceneggiatura, fotografia e montaggio).
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