lunedì 14 marzo 2016

Come vinsi la guerra (The General, 1926) di Clyde Bruckman, Buster Keaton

Nella Georgia del 1861, durante la guerra di secessione americana, il macchinista ferroviario Johnnie Gray ha due grandi amori: la bella Annabelle Lee e la sua locomotiva chiamata “il generale”. I soldati nordisti gliele porteranno via entrambe ma l’uomo lotterà con tutte le sue forza per recuperarle. Tra i capolavori di Keaton è, probabilmente, il più famoso, il più visto, il più spettacolare ed il più curato dal punto di vista del dettaglio tecnico. Forte di una sceneggiatura granitica, firmata dalla medesima coppia alla regia, è un trascinante racconto epico comico, denso di azione e di avventura, che spiazza lo spettatore nel suo continuo ribaltamento degli schemi logici tradizionali, a cominciare dal suo protagonista Johnnie Gray/ Buster Keaton, eroe per caso che riesce a compiere atti straordinari quasi senza rendersene conto. Con la sua impassibile maschera triste l’autore intende mostrarci la casualità della vita e l’inutilità della guerra, senza mai enfatizzarne gli accenti tragici ma soltanto quelli ridicolmente inconcludenti. E’ uno dei modelli più alti della comicità keatoniana, straripante di trovate geniali come tutte le “disastrose” sequenze in cui l’uomo è alla prese con la locomotiva. Grandiose le scene di battaglia in campo aperto, di cui Woody Allen ha cercato di replicare il fascino figurativo ed il senso plastico nel suo Amore e Guerra del 1975. Liberamente ispirato a un romanzo di William Pittenger, a sua volta tratto da una vicenda reale, è un colossale ritratto iconografico di ampio respiro, stilisticamente non lontano dal cinema grandioso di David Wark Griffith, che, dal punto di vista estetico, ricalca le celebri lastre di Matthew Brady sulla guerra civile americana. Tecnicamente è un capolavoro assoluto, uno sfoggio sontuoso della padronanza artistica e dell’estro inventivo del suo autore: campi lunghi, esterni reali, panoramiche abbacinanti, movimenti di macchina vorticosi, profondità di campo ed un realismo che trova il suo tripudio nelle incredibili scene di massa, donando così allo sfondo il medesimo risalto rispetto alle consuete gag comiche. Fedele alla sua idea antiretorica Keaton porta in scena un goffo antieroe, che dissacra ironicamente le logiche della guerra e l’enfasi patriottica, e il cui sapido scetticismo esplode fragorosamente nell’irresistibile finale (“Se poi perdete la guerra non date la colpa a me”), distruggendo satiricamente, con una sola frase, un’intera cultura militarista e tutto il suo tronfio paravento di pose accigliate, parate sfarzose e atteggiamenti marziali. Il cinema individualista dell’autore trova pieno compimento in quest’opera “affollata” di comparse e di particolari visivi, perché appare ancora più evidente il contrasto tra il protagonista e gli altri, che procedono sistematicamente in direzioni opposte. E sono altresì presenti le tipiche “ossessioni” keatoniane per il tempo e per la meccanica: memorabili le scene con gli scambi di binario giocate sul filo dei secondi, un’applicazione visionaria di cinematica astratta. Latore inconsapevole di un’avanguardia moderna e discorde, Keaton ci ha lasciato una straordinaria eredità artistica ed un inequivocabile messaggio umanistico, basato sul potente concetto di resilienza estrema, sia rispetto al destino che alle regole omologatrici imposte dallo status quo.

Voto:
voto: 5/5

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