Nella Georgia del 1861, durante la guerra
di secessione americana, il macchinista ferroviario Johnnie Gray ha due grandi
amori: la bella Annabelle Lee e la sua locomotiva chiamata “il generale”. I
soldati nordisti gliele porteranno via entrambe ma l’uomo lotterà con tutte le
sue forza per recuperarle. Tra i capolavori di Keaton è, probabilmente, il più
famoso, il più visto, il più spettacolare ed il più curato dal punto di vista
del dettaglio tecnico. Forte di una sceneggiatura granitica, firmata dalla
medesima coppia alla regia, è un trascinante racconto epico comico, denso di
azione e di avventura, che spiazza lo spettatore nel suo continuo ribaltamento
degli schemi logici tradizionali, a cominciare dal suo protagonista Johnnie
Gray/ Buster Keaton, eroe per caso che riesce a compiere atti straordinari
quasi senza rendersene conto. Con la sua impassibile maschera triste l’autore
intende mostrarci la casualità della vita e l’inutilità della guerra, senza mai
enfatizzarne gli accenti tragici ma soltanto quelli ridicolmente inconcludenti.
E’ uno dei modelli più alti della comicità keatoniana, straripante di trovate
geniali come tutte le “disastrose” sequenze in cui l’uomo è alla prese con la
locomotiva. Grandiose le scene di battaglia in campo aperto, di cui Woody Allen
ha cercato di replicare il fascino figurativo ed il senso plastico nel suo Amore e Guerra del 1975. Liberamente
ispirato a un romanzo di William Pittenger, a sua volta tratto da una vicenda
reale, è un colossale ritratto iconografico di ampio respiro, stilisticamente
non lontano dal cinema grandioso di David Wark Griffith, che, dal punto di
vista estetico, ricalca le celebri lastre di Matthew Brady sulla guerra civile
americana. Tecnicamente è un capolavoro assoluto, uno sfoggio sontuoso della
padronanza artistica e dell’estro inventivo del suo autore: campi lunghi,
esterni reali, panoramiche abbacinanti, movimenti di macchina vorticosi,
profondità di campo ed un realismo che trova il suo tripudio nelle incredibili
scene di massa, donando così allo sfondo il medesimo risalto rispetto alle
consuete gag comiche. Fedele alla sua idea antiretorica Keaton porta in scena
un goffo antieroe, che dissacra ironicamente le logiche della guerra e l’enfasi
patriottica, e il cui sapido scetticismo esplode fragorosamente
nell’irresistibile finale (“Se poi
perdete la guerra non date la colpa a me”), distruggendo satiricamente, con
una sola frase, un’intera cultura militarista e tutto il suo tronfio paravento
di pose accigliate, parate sfarzose e atteggiamenti marziali. Il cinema
individualista dell’autore trova pieno compimento in quest’opera “affollata” di
comparse e di particolari visivi, perché appare ancora più evidente il
contrasto tra il protagonista e gli altri, che procedono sistematicamente in
direzioni opposte. E sono altresì presenti le tipiche “ossessioni” keatoniane
per il tempo e per la meccanica: memorabili le scene con gli scambi di binario
giocate sul filo dei secondi, un’applicazione visionaria di cinematica astratta.
Latore inconsapevole di un’avanguardia moderna e discorde, Keaton ci ha
lasciato una straordinaria eredità artistica ed un inequivocabile messaggio
umanistico, basato sul potente concetto di resilienza estrema, sia rispetto al
destino che alle regole omologatrici imposte dallo status quo.
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