giovedì 17 marzo 2016

Hunger (Hunger, 2008) di Steve McQueen

Nell’Irlanda del Nord del 1981 i prigionieri politici dell’IRA protestano duramente contro una legge del governo inglese che li ha equiparati ai carcerati comuni, abolendo lo statuto speciale a loro riservato. Il loro leader, il carismatico Bobby Sands, li guida prima allo “sciopero della coperte” (rifiutarsi di indossare la divisa carceraria indossando solo una coperta per coprirsi) e poi a quello dell’igiene (il rifiuto assoluto di lavarsi e di radersi). La violenta repressione della polizia carceraria non farà altro che inasprire l’indomita resistenza di Sands e dei suoi fedeli, che daranno così inizio a un drammatico sciopero della fame, che li condurrà tutti alla morte. Crudo dramma carcerario ispirato alla vera storia di Bobby Sands, morto a soli 27 anni nel carcere di Maze, dove era detenuto come membro attivo della resistenza paramilitare irlandese, dopo 66 giorni di sciopero della fame. Diviso in tre atti di scioccante potenza e di crudele bellezza, è un assalto feroce allo stomaco, ai sensi e al cuore dello spettatore, che viene catapultato in questa realtà disumana di soprusi, di fetore, di sangue, di lacrime, di ferite, di privazioni, di umiliazioni e di corpi in disfacimento, usati come baluardo estremo di una dignità indomabile, pronta a tutto pur di difendere il proprio ideale. Più che un film politico è un film sull’uomo, sul corpo e sullo spirito. Il corpo è il territorio naturale del cinema di McQueen, un cinema “a mano armata” che non fa sconti, nudo e lucido nel suo mirare all’essenza, senza risparmiarci immagini scioccanti e situazioni estreme. Il cinema di McQueen ha con il corpo umano un rapporto fisico, viscerale, ma il suo scavare nell’interno, mostrandocene le sofferenze, le piaghe e i tormenti, ha un mero intento spirituale. Raffigurare il dolore fisico per cercare l’essenza delle cose, lo spirito dell’uomo, l’anima che sta dietro alle azioni o alle scelte, anche quelle più radicali. Il realismo efferato dei pestaggi commessi dalle guardie carcerarie ai danni dei prigionieri politici irlandesi, le disgustose scene delle pareti delle celle imbrattate di escrementi, lo snervante piano sequenza degli inservienti che puliscono l’urina dai corridoi. Sono immagini di una violenza insostenibile, raffigurate con uno stile algido, asettico, creando così un effetto straniante che stordisce lo spettatore. Ed è su questo contrasto, tra la durezza dei contenuti e la pulizia glaciale della forma, che il cinema di McQueen punta per ottenere la necessaria astrazione concettuale, che consenta di andare oltre la sgradevolezza delle immagini, sublimandosi in un messaggio, forte e chiaro, che sappia coniugare indignazione e denuncia. Il finale struggente, con la lunga agonia di Sands, evita ogni forma di retorica sentimentale e mira alla mistica del dolore, alla catarsi ideologica, all’ascesi spirituale, in un momento di assoluta valenza tragica. Straordinaria interpretazione del protagonista Michael Fassbender, che ci regala una prova fisica ed un risalto drammatico indimenticabili. Il lungo piano sequenza con il dialogo tra Sands e il sacerdote è il momento più intimo e più politico del film, quello in cui i tormenti della carne cedono momentaneamente il passo a quelli dello spirito. Premiato al Festival di Cannes con il premio (meritatissimo) alla migliore opera prima, è un’opera scomoda, disturbante e memorabile.

Voto:
voto: 4,5/5

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