Un gruppo di misteriosi sicari penetra in
una sezione newyorkese della CIA ed uccide tutti i dipendenti. Sopravvive solo
un agente, nome in codice “condor”, che si nasconde nell’appartamento di una
donna ed inizia una pericolosa indagine personale per far luce sul massacro.
Scoprirà un’agghiacciante complotto in cui sono implicati settori deviati della
sua stessa agenzia di intelligence.
Dal romanzo omonimo di James Grady, Pollack ha tratto un intenso thriller
spionistico d’azione, tra i più celebri degli anni ’70, sorretto da un ritmo
teso, una suspense hitchcockiana per il costante senso di minaccia incombente e
dei dialoghi pungenti. Pur nelle sue inverosimiglianze spettacolari, tipiche di
un certo cinema americano, si avvale di personaggi complessi, scritti
egregiamente in fase di sceneggiatura, e cerca di abbozzare un discorso
politico sul conflitto etico tra libertà individuale e sicurezza nazionale,
dispensando graffi urticanti agli intrallazzi del potere. Figlio di quel
periodo di profondo disincanto popolare, successivo allo scandalo del Watergate
e alla sconfitta in Vietnam, ebbe un grande successo di pubblico per le sue
ambigue atmosfere cospirative e, seppur in odore di sopravvalutazione, resta un
vigoroso documento action di
quell’epoca di sbandamento sociopolitico. A volte la vicenda si contorce un po’
troppo nella ricerca programmatica del colpo di scena, ma la tensione regge
fino alla fine, anche grazie alla buona squadra di attori (Robert Redford, Faye
Dunaway, Cliff Robertson e Max von Sydow), tutti azzeccati nei rispettivi
ruoli. Per molti è un classico degli anni ’70, ma il regista ha fatto di
meglio.
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