martedì 29 marzo 2016

L'ultimo re di Scozia (The Last King of Scotland, 2006) di Kevin Macdonald

Il giovane Nicholas Garrigan, fresco laureato in medicina, lascia la Scozia per l’Uganda, dove intende confrontarsi con un’esperienza formativa dal punto di vista umano e professionale. Per una serie di fortuite coincidenze entra nelle grazie del presidente dittatore Idi Amin Dada, di cui diventerà medico personale, confidente ed amico. Sedotto dal suo innato carisma, dalla sua eloquenza naturale e dal suo stile di vita opulento, il giovane Garrigan finirà in un meccanismo ben più grande di lui. Dopo aver scoperto la vera natura autoritaria e sanguinaria del leader ugandese, e i tanti massacri da lui compiuti in nome della “sicurezza nazionale”, egli dovrà fare i conti con la sua coscienza, mettendo in forte pericolo la sua stessa vita. Tratto dall'omonimo romanzo di Giles Foden, questo cupo dramma storico utilizza un personaggio di fantasia, il dottor Garrigan, per raccontare le imprese nefaste, il talento politico e la personalità esuberante di uno dei più temuti e controversi leader africani degli anni ’70: il generale Amin, macchiatosi di agghiaccianti crimini contro l’umanità negli otto anni in cui resse il potere in Uganda. Lo scopo del regista, nato come documentarista e qui al suo primo lungometraggio, è quello di analizzare nel dettaglio la natura ambigua del “carisma”, elemento essenziale alla base del successo politico, con specifica attinenza verso i dittatori del secolo passato, che, grazie ad esso, sono riusciti a porre le basi del loro impero del male. In tal senso il gioco di “seduzione” psicologica tra l’imponente leader di colore ed il giovane aggraziato medico scozzese funge da modello emblematico del fascino sinistro che il potere esercita sulle masse. Il punto di vista ingenuo di Garrigan è quello del mondo occidentale che ha a lungo sottovalutato la pericolosità del despota ugandese, con un atteggiamento di pavida acquiescenza. Pur con qualche concessione agli inevitabili stereotipi sull’Africa, è un buon film di attori, sorretto da una solida sceneggiatura ed abilmente confezionato con un’estetica dal sapore anni ’70. Eccellenti le interpretazioni dei due protagonisti: uno straordinario Forest Whitaker, che ci regala una performance ambigua e sfaccettata di grande spessore drammatico, e la nuova promessa del cinema britannico, James McAvoy, costretto alla sordina del suo ingombrante partner ma a suo agio pur di fronte a tanta esuberanza. L’istrione Whitaker, che per questo ruolo vinse tutti i premi maggiori (Oscar compreso), fa un incredibile lavoro di cesello per apparire ora simpatico, ora colorito, ora sgradevole, ora inquietante, lasciando sempre sottintendere la violenta ferocia del personaggio, che ci viene poi esplicitamente svelata nel cruento finale. Il bilanciamento tra storia e romanzo si mantiene su livelli accettabili e gli elementi folcloristici, come gli appetiti amorosi o i tanti vezzi di Amin, donano ulteriore spessore tragico ad un personaggio indubbiamente complesso nella sua carica “maledetta”. Nel resto del cast risulta efficace la bella Kerry Washington nel ruolo dell’intensa Kay, la più giovane delle mogli di Amin, mentre appare un po’ spaesata Gillian Anderson in un personaggio di contorno poco utile alla vicenda. Dinamico e nervoso nello stile, questo biopic romanzato coglie nel segno nella sua costante ricerca di equilibrio tra sobrietà e spettacolarizzazioni, e ci regala, con la sua ottica in soggettiva (europea), un’agghiacciante istantanea di uno dei periodi più oscuri della recente storia africana.

Voto:
voto: 4/5

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