Enrique e Ignacio sono due ex compagni di
collegio, che si ritrovano dopo vent’anni e rievocano i vecchi tempi. I due
giovani hanno condiviso i primi turbamenti adolescenziali, durante i quali
hanno scoperto la loro omosessualità. Ma nel loro passato c’è anche un ricordo
doloroso, legato a padre Manolo, un prete pedofilo che, durante gli anni della
scuola, era solito abusare sessualmente del piccolo Ignacio, verso cui provava
una passione morbosa. Ignacio propone ad Enrique, che adesso è un regista in
crisi d’ispirazione, di fare un film su questo tragico episodio della loro
infanzia. Enrique accetta con entusiasmo, ma, come per incanto, riemerge dal
passato la figura di padre Manolo, che ha smesso l’abito talare, è sposato con
figli ma nutre ancora la medesima attrazione per Ignacio. Il finale riserverà
parecchie sorprese. In questo melodramma passionale che stinge nel noir tutto è
volutamente eccessivo: la complessa struttura a scatole cinesi, l’utilizzo
continuo dei flashback che spiazzano lo spettatore, l’ulteriore dimensione
metanarrativa aggiunta dal film nel film, il gioco di specchi sull’identità dei
personaggi, il travestitismo, le simbologie religiose, gli ardori omosessuali,
i colpi di scena. E tutto si muove schematicamente secondo le direttrici
principali dei due generi nobili a cui il film sembra attingere a piene mani:
il maledettismo del noir e l’infelicità del melò. Con quest’opera fortemente
provocatoria Almodóvar si gioca tutto sul filo sottile dell’arduo equilibrio
tra rettitudine e perversione, inferno e paradiso, etero e omo, quasi a voler sospingere
la diversa condizione sociale dei gay nell’alveo di una canonica “normalità”,
rispetto alla percezione della gente comune. Ma l’equilibrio in questione non
può che scricchiolare di fronte ad un impianto narrativo così carico,
ridondante e saturo di livori rancorosi nei confronti della Chiesa, a cui il
grande regista spagnolo imputa le colpe maggiori della “cattiva educazione” del
titolo. Il risultato finale è un film troppo colorito per risultare spontaneo e
troppo arrabbiato per risultare sincero. Un’opera sicuramente inferiore agli
ultimi eccellenti risultati raggiunti dal regista manchego. Nel cast, stavolta
privo degli attori feticcio di Almodóvar, merita una menzione speciale il
bravissimo Gael García Bernal, che si conferma interprete sensibile ed eclettico,
capace di calarsi nei ruoli più diversi con sorprendente credibilità.
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