lunedì 14 marzo 2016

Black Snake Moan (Black Snake Moan, 2006) di Craig Brewer

Nel Tennessee rurale avviene l’improbabile incontro tra due anime perse. Lui è Lazarus, afroamericano maturo, ex musicista blues trasformatosi in agricoltore, profondamente deluso per il tradimento della moglie, che lo ha lasciato per suo fratello. Lei è Rae, ninfomane reietta, sessualmente sfruttata dai maschi della sua comunità e con un doloroso passato di abusi familiari alle spalle. La giovane sembra aver trovato l’amore nel fragile Ronnie, ma quando questi parte per la guerra in Iraq lei ricade inevitabilmente nel vizio che la divora, finendo malmenata e seminuda in un viottolo di campagna. Lazarus la trova, l’accoglie in casa e decide di curarla per restituirle la propria dignità, ma i suoi metodi non sono esattamente ortodossi. Bollente dramma umano sullo sfondo di una provincia americana vivida e “sudata”, che ci restituisce l’atmosfera assolata degli stati agricoli del Sud. E’ essenzialmente un film di attori, sorretto da una vigorosa anima musicale, quell’anima blues, tormentata e pregnante, che ci arriva struggente attraverso l’incredibile performance di Samuel L. Jackson, straordinario protagonista nei consunti panni del vecchio bluesman di campagna. La sua interpretazione del brano “Black Snake Moan”, che dà il titolo al film, è di quelle che restano e testimonia l’assoluto talento dell’attore di colore, che ha cantato con la sua vera voce ed ha imparato a suonare la chitarra appositamente per il film, rifiutando l’utilizzo di una controfigura. Il suo Lazarus è umano, carismatico, compassionevole, autoritario, iracondo e fanatico al tempo stesso, una variegata e riuscita combinazione di tanti personaggi interpretati da Jackson nel corso della sua lunga carriera. La sua controparte femminile è un’intensa Christina Ricci, credibile e perennemente seminuda in scena, che si è donata anima e corpo al progetto e che riesce a tener testa degnamente al trascinante partner grazie ad un’interpretazione fisicamente “generosa”. Come nella tradizione che gli appartiene il blues diventa la voce del risentimento represso, un lamento dolente ma fiero, non rassegnato, ma piuttosto orientato alla possibilità di quel riscatto morale che lo rende espressione austera dell’anima di un popolo. La metaforica commistione tra sesso e religione, retaggio dei trasgressivi anni ’70, viene affrontata in maniera sobria, senza eccessi scandalistici, facendo saggiamente prevalere la ben più interessante, e profonda, psicologia dei personaggi. Peccato per il finale troppo lieto rispetto al tono generale del film, l’unica pecca importante di questo interessante prodotto indipendente. In Italia non è mai stato distribuito nelle sale ma è uscito direttamente per il mercato home video.

Voto:
voto: 3,5/5

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