giovedì 31 marzo 2016

Vivere (Ikiru, 1952) di Akira Kurosawa

Un vecchio funzionario comunale, Kanji Watanabe, malato terminale di cancro, si adopera per bonificare una zona paludosa e farci costruire un parco giochi per bambini. Avendo solo un anno di vita impegna tutto se stesso in quest’ultimo atto decoroso, capace di dare un senso ai suoi ultimi giorni. Riuscirà nell’impresa grazie alla sua tenace dedizione ma, dopo la sua morte, nessuno sembra più ricordarsi di lui, tranne le madri dei bimbi per cui l’anziano si è tanto battuto. Capolavoro di Kurosawa, possente affresco sulla vecchiaia, sulla solitudine umana di fronte alla morte e sul senso della vita. Intriso di poetico lirismo, di rigoroso realismo, di riferimenti cristologici, di suggestive metafore e con qualche tocco di amaro sarcasmo, è uno struggente dramma esistenziale, pieno di svolte narrative e di balzi temporali, che sembra ispirarsi alle opere letterarie di Dostoevskij, ma affine anche a certe tematiche dei film di Chaplin o di De Sica. Il complesso gioco di flashback che caratterizzano la pellicola creano un continuo slittamento del piano cronologico rispetto al flusso narrativo centrale, infrangendo così la regola della linearità diegetica, cosa assolutamente atipica per l’epoca. Nella malinconica analisi di una vita al tramonto, effettuata senza alcuna enfasi retorica, l’autore non perde occasione di dispensare graffi satirici alla burocrazia del suo paese, lenta, macchinosa e incapace di stare al passo con i reali bisogni della gente. L’inesorabile senso di sconfitta che pervade il film è coerente al pessimismo del regista, ma viene messo in scena con tale asciutta solennità da conferire all’opera un senso assoluto, definitivo come la vita stessa. Straordinaria la sequenza della veglia funebre di Watanabe inframezzata dai flashback della sua vita, un mirabile collage stilistico proteso alla ricerca della verità sulla vicenda umana del protagonista. Quella verità che in Rashōmon era sfuggente ed inaccessibile, mentre qui assume la forma di una mesta presa di coscienza da parte dei colleghi di Watanabe. Vivere è un’altissima opera d’impegno morale, che denuncia l’indifferenza e che ci parla di possibilità inespresse, di occasioni perdute, ma anche di militanza sociale, di mobilitazione etica, volta a trovare una parvenza di senso al nostro “vivere”. Il finale aspro, fortemente voluto dall’autore, sembra rendere vano il sacrificio del protagonista, eppure garantisce una concreta continuità dell’impegno sopra citato, con l’esplicito riferimento ai bambini, il futuro del mondo. Il protagonista Takashi Shimura, attore feticcio del regista, ci regala un’altra interpretazione memorabile nei panni dell’anziano Watanabe. Capace di reggere lunghi primi piani con espressioni di assoluta intensità emotiva, Shimura si conferma interprete sensibile e capace di trasmettere una carica di profonda umanità. Il film è rimasto inedito in Italia fino al 1986, quando venne recuperato grazie a una retrospettiva sul grande Maestro giapponese.

Voto:
voto: 5/5

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