Un vecchio funzionario comunale, Kanji
Watanabe, malato terminale di cancro, si adopera per bonificare una zona
paludosa e farci costruire un parco giochi per bambini. Avendo solo un anno di
vita impegna tutto se stesso in quest’ultimo atto decoroso, capace di dare un
senso ai suoi ultimi giorni. Riuscirà nell’impresa grazie alla sua tenace
dedizione ma, dopo la sua morte, nessuno sembra più ricordarsi di lui, tranne
le madri dei bimbi per cui l’anziano si è tanto battuto. Capolavoro di Kurosawa,
possente affresco sulla vecchiaia, sulla solitudine umana di fronte alla morte
e sul senso della vita. Intriso di poetico lirismo, di rigoroso realismo, di
riferimenti cristologici, di suggestive metafore e con qualche tocco di amaro
sarcasmo, è uno struggente dramma esistenziale, pieno di svolte narrative e di
balzi temporali, che sembra ispirarsi alle opere letterarie di Dostoevskij, ma
affine anche a certe tematiche dei film di Chaplin o di De Sica. Il complesso
gioco di flashback che caratterizzano la pellicola creano un continuo slittamento
del piano cronologico rispetto al flusso narrativo centrale, infrangendo così
la regola della linearità diegetica, cosa assolutamente atipica per l’epoca.
Nella malinconica analisi di una vita al tramonto, effettuata senza alcuna
enfasi retorica, l’autore non perde occasione di dispensare graffi satirici
alla burocrazia del suo paese, lenta, macchinosa e incapace di stare al passo
con i reali bisogni della gente. L’inesorabile senso di sconfitta che pervade
il film è coerente al pessimismo del regista, ma viene messo in scena con tale
asciutta solennità da conferire all’opera un senso assoluto, definitivo come la
vita stessa. Straordinaria la sequenza della veglia funebre di Watanabe
inframezzata dai flashback della sua vita, un mirabile collage stilistico proteso alla ricerca della verità sulla vicenda
umana del protagonista. Quella verità che in Rashōmon
era sfuggente ed inaccessibile, mentre qui assume la forma di una mesta
presa di coscienza da parte dei colleghi di Watanabe. Vivere è un’altissima opera d’impegno morale, che denuncia
l’indifferenza e che ci parla di possibilità inespresse, di occasioni perdute,
ma anche di militanza sociale, di mobilitazione etica, volta a trovare una
parvenza di senso al nostro “vivere”. Il finale aspro, fortemente voluto
dall’autore, sembra rendere vano il sacrificio del protagonista, eppure
garantisce una concreta continuità dell’impegno sopra citato, con l’esplicito
riferimento ai bambini, il futuro del mondo. Il protagonista Takashi Shimura,
attore feticcio del regista, ci regala un’altra interpretazione memorabile nei
panni dell’anziano Watanabe. Capace di reggere lunghi primi piani con
espressioni di assoluta intensità emotiva, Shimura si conferma interprete
sensibile e capace di trasmettere una carica di profonda umanità. Il film è
rimasto inedito in Italia fino al 1986, quando venne recuperato grazie a una
retrospettiva sul grande Maestro giapponese.
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