mercoledì 7 giugno 2017

Fiori d'equinozio (Higanbana, 1958) di Yasujiro Ozu

Tokyo, fine anni ’50: Wataru Hirayama, direttore d’azienda e padre autoritario si preoccupa per il futuro delle sue due figlie che vede già in età da marito. Uomo affabile e saggio nei rapporti di amicizia, Hirayama è un riferimento per parenti e conoscenti che gli chiedono spesso consigli sulla situazione sentimentale dei propri figli, in una società che sta rapidamente cambiando, abbracciando mentalità più aperte sempre meno favorevoli ai matrimoni imposti dalla famiglia e con una maggiore attenzione ai sentimenti dei diretti interessati. Ogni volta che viene interrogato per un parere su codeste questioni, il nostro dispensa sempre opinioni orientate al nuovo modello liberale dei costumi, schierandosi dalla parte dei giovani che hanno il diritto di scegliersi il proprio partner senza costrizioni di sorta. Ma quando un umile impiegato si reca da lui per chiedere la mano della sua prima figlia Setsuko, l’uomo avrà una reazione molto diversa e, sospettoso nei confronti dell’uomo che a prima vista non gli piace, opporrà un secco rifiuto, nonostante la volontà della ragazza di convolare a nozze con il suo amato. La famiglia di Hirayama piomba nello sconforto e nel caos, visto che anche la madre appoggia il volere di Setsuko, e, stavolta, gli amici dovranno intervenire in senso contrario per ricambiare i consigli tolleranti di cui avevano beneficiato in passato. Primo film a colori di Ozu, tratto dal romanzo omonimo di Ton Satomi. E’ una sottile commedia drammatica in cadenze leggere, sospesa tra contemplazione e ironia, che utilizza la contraddittoria figura del padre come simbolo di un paese, il Giappone, in bilico tra tradizioni arcaiche e influenze di modernità provenienti dall’Occidente. L’analisi sociale è bonaria e rigorosa al tempo stesso, grazie alla collaudata maestria registica dell’autore che sperimenta, per la prima volta, l’uso dei colori con parsimonia creativa, mettendo spesso in contrasto vividi “schizzi” di rosso alle tinte sfumate degli ambienti interni. Il conflitto tradizione-modernità, che è il tema centrale dell’opera, è posto come crocevia cruciale del Giappone del futuro, un problema complesso di natura culturale, sociale, morale, storico e di costume, da affrontare senza ipocrisie o timori di sorta. Ed è proprio questo l’intento di questo capolavoro sospeso tra melodramma e satira, esteticamente sontuoso nella sua ripetitività geometrica, parco nei toni e trattenuto nelle passioni (che sono evidenti ma restano “sotterranee”), parsimonioso nell’analisi dei temi, delicato nel flusso narrativo ma perentorio nelle conclusioni, in cui Ozu si schiera, apertamente, dalla parte del liberismo, del rinnovamento e dei giovani, che sono il futuro del Giappone e del mondo. Pur entrando in punta di piedi e con il dovuto rispetto nelle case delle famiglie giapponesi da poco uscite dall’inferno della guerra, avviate verso una incoraggiante ripresa economica e indecise rispetto alla tentazione della modernità che arriva da ovest, lo sguardo umanista dell’autore, pur non nascondendo la nostalgia per un vecchio mondo che sta finendo, indica chiaramente il cambiamento come unica direzione possibile, a patto di utilizzare una saggia moderazione. Il titolo si riferisce ad una pianta (Amaryllis Belladonna) che, in prossimità dell’equinozio d’autunno, fa sbocciare i suoi fiori che possono essere bianchi o rossi a seconda delle annate.

Voto:
voto: 4,5/5

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