mercoledì 7 giugno 2017

Il gusto del sakè (Sanma no aji, 1962) di Yasujiro Ozu

Shuhei Hirayama è un ex direttore d’azienda che, dopo la morte della moglie, vive in serenità con la figlia Michiko e con il minore dei suoi figli maschi. Resosi conto che Michiko è ormai una donna in età da marito che sta sacrificando la sua vita per assisterlo, l’uomo si adopera, con successo, perché la ragazza si sposi. Dopo la cerimonia nuziale, terminata con una rigenerante bevuta di sakè, l’uomo rientra mestamente a casa e si rende conto che ormai per lui è iniziato il periodo della solitudine. L’ultimo film di Ozu torna sul tema (a lui particolarmente caro) del rapporto padre-figlia, che già aveva analizzato in opere precedenti ma con alcune importanti variazioni stilistiche: innanzi tutto lo stridente contrasto tra una narrazione cupa e compassata, che riflette amaramente su una borghesia giapponese resa ormai inerte dalla “conversione” al consumismo occidentale, ed un’ironia beffarda che fa spesso scivolare il dramma nella commedia. E ancora la caratterizzazione dei personaggi femminili, lontani anni luce da quelle donne umili e sottomesse di molte pellicole precedenti, ma più emancipate, coraggiose, propositive e bellicose, in difesa dei propri sentimenti. Con la solita estetica frugale e profonda, l’autore costruisce un sontuoso affresco a più livelli di lettura, sospeso tra rimpianto del passato e paura del futuro, dolente ma anche foriero di una fiera serenità interiore, che nasce dall’accettazione dei dolori dell’esistenza e dalla consapevolezza che la rassegnazione è la sola chiave per relazionarsi rispetto allo scorrere del tempo. La riflessione sull’inevitabile disgregazione del nucleo familiare va estesa all’intera società giapponese, che ha ormai rinnegato i suoi antichi valori tradizionali abbracciando il nuovo, più accattivante, più immediato, più confortevole, più volgare. L’autore, che sarebbe morto prematuramente l’anno dopo, sembra quasi presagire i segni imminenti della fine e si abbandona al senso di perdita con composta tristezza che, pur non esplodendo mai esplicitamente, riempie interamente la sequenza dell’epilogo implodendo nello sguardo intenso del protagonista, fedele all’estetica per negazione di Ozu capace di riempire uno spazio emozionale con la forza silente del vuoto. Eppure, in questo suo ultimo film, l’autore si lascia andare, per un attimo, ad un uso più espressivo della macchina da presa, concedendosi una fugace “trasgressione” alla sua austerità tirannica, nella sequenza dell’ubriaco e di sua figlia che piange a singhiozzi con palese disperazione. Questa scena, che è importante perché innescherà poi gli eventi essenziali alla trama, è rimasta famosa presso i cinefili amanti del cinema orientale come una delle licenze sperimentali di Ozu. Il grande Maestro, che ha poi influenzato a posteriori tanti autori del cinema europeo, come ad esempio Wim Wenders, morirà a 60 anni per un cancro nel 1963, lasciandoci una straordinaria eredità artistica ed una ricca testimonianza della storia del suo paese, tra tradizione e modernità.

Voto:
voto: 4,5/5

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