Shuhei
Hirayama è un ex direttore d’azienda che, dopo la morte della moglie, vive in
serenità con la figlia Michiko e con il minore dei suoi figli maschi. Resosi
conto che Michiko è ormai una donna in età da marito che sta sacrificando la
sua vita per assisterlo, l’uomo si adopera, con successo, perché la ragazza si
sposi. Dopo la cerimonia nuziale, terminata con una rigenerante bevuta di sakè,
l’uomo rientra mestamente a casa e si rende conto che ormai per lui è iniziato
il periodo della solitudine. L’ultimo film di Ozu torna sul tema (a lui
particolarmente caro) del rapporto padre-figlia, che già aveva analizzato in
opere precedenti ma con alcune importanti variazioni stilistiche: innanzi
tutto lo stridente contrasto tra una narrazione cupa e compassata, che riflette
amaramente su una borghesia giapponese resa ormai inerte dalla “conversione” al
consumismo occidentale, ed un’ironia beffarda che fa spesso scivolare il dramma
nella commedia. E ancora la caratterizzazione dei personaggi femminili, lontani
anni luce da quelle donne umili e sottomesse di molte pellicole precedenti, ma
più emancipate, coraggiose, propositive e bellicose, in difesa dei propri
sentimenti. Con la solita estetica frugale e profonda, l’autore costruisce un
sontuoso affresco a più livelli di lettura, sospeso tra rimpianto del passato e
paura del futuro, dolente ma anche foriero di una fiera serenità interiore, che
nasce dall’accettazione dei dolori dell’esistenza e dalla consapevolezza che la
rassegnazione è la sola chiave per relazionarsi rispetto allo scorrere del
tempo. La riflessione sull’inevitabile disgregazione del nucleo familiare va
estesa all’intera società giapponese, che ha ormai rinnegato i suoi antichi
valori tradizionali abbracciando il nuovo, più accattivante, più immediato, più
confortevole, più volgare. L’autore, che sarebbe morto prematuramente l’anno
dopo, sembra quasi presagire i segni imminenti della fine e si abbandona al
senso di perdita con composta tristezza che, pur non esplodendo mai
esplicitamente, riempie interamente la sequenza dell’epilogo implodendo nello
sguardo intenso del protagonista, fedele all’estetica per negazione di Ozu
capace di riempire uno spazio emozionale con la forza silente del vuoto.
Eppure, in questo suo ultimo film, l’autore si lascia andare, per un attimo, ad
un uso più espressivo della macchina da presa, concedendosi una fugace “trasgressione”
alla sua austerità tirannica, nella sequenza dell’ubriaco e di sua figlia che
piange a singhiozzi con palese disperazione. Questa scena, che è importante perché innescherà poi gli eventi essenziali alla trama, è rimasta famosa presso
i cinefili amanti del cinema orientale come una delle licenze sperimentali di
Ozu. Il grande Maestro, che ha poi influenzato a posteriori tanti autori del
cinema europeo, come ad esempio Wim Wenders, morirà a 60 anni per un cancro nel
1963, lasciandoci una straordinaria eredità artistica ed una ricca
testimonianza della storia del suo paese, tra tradizione e modernità.
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