Nel Giappone feudale la cortigiana Òharu viene scacciata insieme alla sua famiglia dalla nobile casa in cui vive perché colpevole di essersi innamorata di un servitore. Sotto la minaccia del severo padre, che le rinfaccia la loro nuova condizione di indigenza, la donna diventa la concubina di un signorotto ma, allontanata dalla moglie di quest'ultimo, intraprende presto la via della prostituzione passando dalle case di piacere alle squallide vie dei quartieri più poveri. Dopo una vita di umiliazioni, Òharu si pente delle sue scelte e diventa monaca, vivendo di elemosina nell'attesa della morte. E' uno dei più celebri capolavori del grande regista giapponese, uno spietato meccanismo che raffigura una tragedia sociale attraverso l'odissea dolorosa di una donna, che attraversa tutti gli stadi della sofferenza per poi trovare la catarsi nella resa incondizionata, nell'assoluto abbandono di sé, raggiungendo uno stato di tragica serenità. In un contesto storico ricostruito con minuziosa precisione nella cura di ogni dettaglio, l'autore mette nuovamente al centro del suo universo narrativo una figura femminile emblematica, portatrice sana della meschinità e dell'arroganza dei maschi, che ne rovinano la vita avviandola in un vortice di perdizione senza possibilità di uscita. Girato con pochi mezzi ma con straordinaria perizia tecnica, attraverso una lunga serie di piani sequenza di magistrale espressività drammatica realizzati quasi tutti in interni, il film è una toccante elegia contemplativa, che alterna abilmente ferocia e tenerezza, con lo sguardo del regista sempre garbatamente compassionevole verso la protagonista (egregiamente interpretata dalla sua "musa" Kinuyo Tanaka). Da segnalare anche la presenza nel cast del celebre Toshirô Mifune nel ruolo del servo di cui Òharu si innamora, dando inizio alla sua parabola dolorosa. Tra immagini di formidabile potenza pittorica, una profonda capacità introspettiva ed una lunga sequenza di scene madri immerse in un lirismo di sconsolata suggestione, emerge lucida e tagliente la denuncia polemica dell'autore che, attraverso un simbolico dramma individuale, attacca la società patriarcale giapponese e riporta impietosamente la disperata condizione delle donne, sottoposte ad una incredibile serie di soprusi e ingiustizie. Òharu è un po' il simbolo di tutte le donne della filmografia di Mizoguchi: un'eroina calpestata dalla vita ma mai completamente doma, che resta sempre uguale fisicamente annullando il passare del tempo. Con questa intuizione artistica l'autore intende sottolineare, metaforicamente, che la condizione della sua protagonista è assoluta e immutabile, un ricettacolo di tutto il male subito silenziosamente dalle donne in quegli anni oscuri. Presentato con grande successo al Festival del Cinema di Venezia, dove vinse un prestigioso premio internazionale, il film ottenne, grazie alla cassa di risonanza della famosa rassegna cinematografica italiana, una vasta e repentina visibilità mondiale, facendo conoscere (per la prima volta a questi livelli) il nome e l'arte di Mizoguchi anche al di fuori dei confini giapponesi.
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