Vita e arte
di Kitagawa Utamaro, sopraffino pittore giapponese del XVIII secolo, che amava
ritrarre figure femminili e scene erotiche con uno stile raffinato e audace,
volto all’esaltazione della bellezza e della passione, pulsioni vitali capaci
di illuminare l’esistenza umana. Tra adulatori e nemici, intrighi e vendette, Utamaro
visse intensamente nel culto del corpo femminile, sapendo trarre costante fonte
d’ispirazione anche dalle esperienze personali più drammatiche e umilianti.
Splendida elegia storica di Mizoguchi come inno supremo alla forza dell’arte ed
al suo potere divino di fermare il tempo, eternare il bello, fissare le
emozioni e spezzare, idealmente, le catene di un regime oppressivo attraverso
il suo afflato sovversivo. E’ un film biografico ma anche profondamente “autobiografico”
perché Mizoguchi si identifica totalmente nella figura del pittore xilografo Utamaro,
con cui condivide la concezione di arte in sinergia dinamica con la vita e
l’adorazione assoluta per la figura femminile, messa costantemente al centro di
tutto il suo cinema. Ma c’è anche un altro elemento che rende “autobiografica”
quest’opera di elegantissima suggestione visiva e di prezioso fascino
stilistico: la pellicola fu girata, non senza difficoltà, durante l’occupazione
americana del Giappone nell’immediato dopoguerra. Il regista dovette faticare
molto per convincere i burocrati al potere che il film fosse privo di
riferimenti politici antiamericani ma che parlasse solamente di arte.
Identificandosi anche in questo caso con il protagonista Utamaro, e condividendo
la medesima scaltrezza metaforica, l’autore riuscì a dissimulare abilmente il
rivoluzionario messaggio liberale proprio dell’arte del grande pittore
settecentesco (e della sua, in egual misura), realizzando un memorabile
affresco simbolico che mischia insieme arte, storia, politica, erotismo,
ribellione, poesia, ascetismo e carnalità, stabilendo un ideale transfert tra sé stesso e il suo
personaggio, tra la sua epoca ed il passato, unificando cinema e pittura come
libere espressioni creative dello spirito umano. La vis polemica della pellicola è, ovviamente, implicita, sfumata,
sottile, una protesta allegoricamente implosiva realizzata tramite lo
stupefacente incanto delle immagini, la raffinatezza delle forme, la capacità
sublime di catturare la potenza della bellezza in una singola immagine iconica
per opporla, eroicamente, al caos del mondo, all’ottusità del potere,
all’arroganza dei tiranni. La donna è la fonte, la pittura è il mezzo, lo
splendore eterno è il fine. Memorabile la sequenza, sensuale e poetica insieme,
in cui Utamaro realizza un ritratto della bella Takasode, dipingendolo sulla
sua schiena bianchissima, rendendo così il disegno vivo, pulsante, carnale,
legato indissolubilmente alle emozioni, alla fisicità, ai dolori e alle gioie
del suo stesso soggetto. In questo momento straordinario di altissimo cinema Mizoguchi/Utamaro
riesce a dare forma concreta all’idea stessa di arte ed alla sua inestirpabile
contraddizione interna tra eternità e caducità.
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