martedì 6 giugno 2017

Utamaro e le sue cinque mogli (Utamaro o meguru gonin no onna, 1946) di Kenji Mizoguchi

Vita e arte di Kitagawa Utamaro, sopraffino pittore giapponese del XVIII secolo, che amava ritrarre figure femminili e scene erotiche con uno stile raffinato e audace, volto all’esaltazione della bellezza e della passione, pulsioni vitali capaci di illuminare l’esistenza umana. Tra adulatori e nemici, intrighi e vendette, Utamaro visse intensamente nel culto del corpo femminile, sapendo trarre costante fonte d’ispirazione anche dalle esperienze personali più drammatiche e umilianti. Splendida elegia storica di Mizoguchi come inno supremo alla forza dell’arte ed al suo potere divino di fermare il tempo, eternare il bello, fissare le emozioni e spezzare, idealmente, le catene di un regime oppressivo attraverso il suo afflato sovversivo. E’ un film biografico ma anche profondamente “autobiografico” perché Mizoguchi si identifica totalmente nella figura del pittore xilografo Utamaro, con cui condivide la concezione di arte in sinergia dinamica con la vita e l’adorazione assoluta per la figura femminile, messa costantemente al centro di tutto il suo cinema. Ma c’è anche un altro elemento che rende “autobiografica” quest’opera di elegantissima suggestione visiva e di prezioso fascino stilistico: la pellicola fu girata, non senza difficoltà, durante l’occupazione americana del Giappone nell’immediato dopoguerra. Il regista dovette faticare molto per convincere i burocrati al potere che il film fosse privo di riferimenti politici antiamericani ma che parlasse solamente di arte. Identificandosi anche in questo caso con il protagonista Utamaro, e condividendo la medesima scaltrezza metaforica, l’autore riuscì a dissimulare abilmente il rivoluzionario messaggio liberale proprio dell’arte del grande pittore settecentesco (e della sua, in egual misura), realizzando un memorabile affresco simbolico che mischia insieme arte, storia, politica, erotismo, ribellione, poesia, ascetismo e carnalità, stabilendo un ideale transfert tra sé stesso e il suo personaggio, tra la sua epoca ed il passato, unificando cinema e pittura come libere espressioni creative dello spirito umano. La vis polemica della pellicola è, ovviamente, implicita, sfumata, sottile, una protesta allegoricamente implosiva realizzata tramite lo stupefacente incanto delle immagini, la raffinatezza delle forme, la capacità sublime di catturare la potenza della bellezza in una singola immagine iconica per opporla, eroicamente, al caos del mondo, all’ottusità del potere, all’arroganza dei tiranni. La donna è la fonte, la pittura è il mezzo, lo splendore eterno è il fine. Memorabile la sequenza, sensuale e poetica insieme, in cui Utamaro realizza un ritratto della bella Takasode, dipingendolo sulla sua schiena bianchissima, rendendo così il disegno vivo, pulsante, carnale, legato indissolubilmente alle emozioni, alla fisicità, ai dolori e alle gioie del suo stesso soggetto. In questo momento straordinario di altissimo cinema Mizoguchi/Utamaro riesce a dare forma concreta all’idea stessa di arte ed alla sua inestirpabile contraddizione interna tra eternità e caducità.

Voto:
voto: 5/5

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