Il
gangster ebreo Benjamin Siegel, detto "Bugsy", viene inviato dai suoi
soci in California per estendere il dominio criminale sul racket del gioco
d’azzardo anche alla West coast. Psicopatico dal grilletto facile e rubacuori
incallito, "Bugsy" perde la testa per l’avvenente attrice Virginia
Hill ed elabora un ambizioso progetto visionario: fondare nel deserto del
Nevada un “paradiso” del gioco d’azzardo. Le basi di Las Vegas sono così
gettate ma "Bugsy" non potrà vederne le mille luci. Gangster movie
atipico, decorativo, a volte prolisso, sotto forma di apologia chic sul lato oscuro del capitalismo
americano. Levinson è un regista garbato, specialista in commedie, che non
possiede le capacità di Coppola o di Scorsese per analizzare con rigorosa
lucidità e crudo realismo l’universo criminale. Per questo il suo lavoro si
limita ad una messa in scena elegante ma superficiale, ambigua perché modellata
sulla personalità del suo protagonista, un nevrotico violento dall’animo
romantico, capace di porsi come spietato assassino o brillante seduttore a
seconda della situazione. Levinson cerca di mettere a nudo la mutevole
personalità di "Bugsy", ma non riesce mai ad elevarsi al di sopra
degli stereotipi, tra charme e sparatorie, amplessi e ceffoni, tradimenti e
scenate nevrotiche. Nel cast sontuoso i protagonisti, Warren Beatty e Annette
Bening, sono sempre sopra le righe con un’interpretazione all’insegna
dell’effetto, invece Ben Kingsley, Harvey Keitel ed Elliott Gould offrono prove
molto convincenti nei rispettivi ruoli. Peccato per Joe Mantegna, intenso ma
poco utilizzato nei panni di George Raft. Questo romanzo criminale un po’
inerte, e a tratti macchinoso, ebbe ben dieci candidature agli Oscar, tra cui
il nostro Ennio Morricone per la raffinata colonna sonora, vincendo due premi
tecnici per scenografie e costumi.
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