martedì 8 marzo 2016

Bugsy (Bugsy, 1991) di Barry Levinson

Il gangster ebreo Benjamin Siegel, detto "Bugsy", viene inviato dai suoi soci in California per estendere il dominio criminale sul racket del gioco d’azzardo anche alla West coast. Psicopatico dal grilletto facile e rubacuori incallito, "Bugsy" perde la testa per l’avvenente attrice Virginia Hill ed elabora un ambizioso progetto visionario: fondare nel deserto del Nevada un “paradiso” del gioco d’azzardo. Le basi di Las Vegas sono così gettate ma "Bugsy" non potrà vederne le mille luci. Gangster movie atipico, decorativo, a volte prolisso, sotto forma di apologia chic sul lato oscuro del capitalismo americano. Levinson è un regista garbato, specialista in commedie, che non possiede le capacità di Coppola o di Scorsese per analizzare con rigorosa lucidità e crudo realismo l’universo criminale. Per questo il suo lavoro si limita ad una messa in scena elegante ma superficiale, ambigua perché modellata sulla personalità del suo protagonista, un nevrotico violento dall’animo romantico, capace di porsi come spietato assassino o brillante seduttore a seconda della situazione. Levinson cerca di mettere a nudo la mutevole personalità di "Bugsy", ma non riesce mai ad elevarsi al di sopra degli stereotipi, tra charme e sparatorie, amplessi e ceffoni, tradimenti e scenate nevrotiche. Nel cast sontuoso i protagonisti, Warren Beatty e Annette Bening, sono sempre sopra le righe con un’interpretazione all’insegna dell’effetto, invece Ben Kingsley, Harvey Keitel ed Elliott Gould offrono prove molto convincenti nei rispettivi ruoli. Peccato per Joe Mantegna, intenso ma poco utilizzato nei panni di George Raft. Questo romanzo criminale un po’ inerte, e a tratti macchinoso, ebbe ben dieci candidature agli Oscar, tra cui il nostro Ennio Morricone per la raffinata colonna sonora, vincendo due premi tecnici per scenografie e costumi.

Voto:
voto: 3/5

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