lunedì 7 marzo 2016

Il deserto dei Tartari (Il deserto dei Tartari, 1976) di Valerio Zurlini

Agli inizi del ‘900 il giovane tenente Giovan Battista Drogo viene inviato in un avamposto militare ai confini dell’impero austroungarico, sul limitare del deserto abitato dal nemico tartaro. Nell’interno del fortino tutti i soldati vivono con ansia l’attesa del minaccioso avversario che dovrebbe arrivare dal deserto, in un misto di paura e voglia di cimentarsi, per dar senso e corpo ai propri sogni di gloria militare. I giorni passano lenti e l’attesa diventa spasmodica, al punto da assumere le “sembianze” di una forza oscura che impedisce ai militi, desiderosi del combattimento, di lasciare la fortezza. Ma intanto il temuto nemico non arriva mai. Dramma storico introspettivo, realizzato con stile sontuoso e con fulgida magnificenza visiva da Zurlini, che è riuscito nell’impresa, ritenuta da molti impossibile, di tradurre in (splendide) immagini il romanzo omonimo di Dino Buzzati. Le principali difficoltà di adattamento risiedono nella dimensione atemporale e storicamente indefinibile in cui Buzzati colloca la vicenda, che vuol essere un apologo austero, con risvolti allegorici, dell’attesa dell’evento fatale, della routine che diventa il motivo stesso della vita, fino a generare, nell’uomo, una dimensione psicologica che diventa una sorta di limbo fantastico, dove è possibile “fuggire” dal tempo. Zurlini sceglie di ambientare la storia al tempo dell’impero austroungarico ed utilizza lo splendido scenario esotico della fortezza Barn, nel sud dell’Iraq, fotografandolo con tale eleganza formale da rendere il film un’esperienza visiva magica ed indimenticabile. Rimanendo assolutamente fedele al senso del testo ispiratore (l’attesa è il senso della vita e, tramite essa, ci si consuma nella malinconia), il regista bolognese realizza un affresco magnifico, affascinante, potente, metafisico, di rigorosa analisi psicologica e di ammirevole sobrietà diegetica, sospeso sullo stridente contrasto tra i silenzi delle lunghe giornate vuote all’interno della guarnigione e l’immensità degli spazi esterni al di là delle mura. L’intera pellicola intende essere una metafora straniante della vita: una lunga attesa del nemico (la morte), la cui idea stessa diventa il suo “alimento” principale in un paradossale, quanto beffardo, ciclo esistenziale. Una menzione speciale va data all’intero cast, straordinario e praticamente perfetto in tutti i suoi componenti: Jacques Perrin, Vittorio Gassman, Giuliano Gemma, Philippe Noiret, Fernando Rey, Max von Sydow, Jean-Louis Trintignant, Helmut Griem. E’ indubbiamente il miglior film di Zurlini e anche l’ultimo della sua carriera. La colonna sonora è di Ennio Morricone, che ha lavorato abilmente per sottrazione, in accordo allo stile dell’opera, con delle musiche brevi ma pregnanti, cariche di personalità nelle loro fugaci apparizioni. La principale differenza tra libro e film è nel finale, che Zurlini ha reso più ambiguo ed amaro.

Voto:
voto: 4,5/5

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