Agli
inizi del ‘900 il giovane tenente Giovan Battista Drogo viene inviato in un
avamposto militare ai confini dell’impero austroungarico, sul limitare del
deserto abitato dal nemico tartaro. Nell’interno del fortino tutti i soldati
vivono con ansia l’attesa del minaccioso avversario che dovrebbe arrivare dal
deserto, in un misto di paura e voglia di cimentarsi, per dar senso e corpo ai
propri sogni di gloria militare. I giorni passano lenti e l’attesa diventa
spasmodica, al punto da assumere le “sembianze” di una forza oscura che
impedisce ai militi, desiderosi del combattimento, di lasciare la fortezza. Ma
intanto il temuto nemico non arriva mai. Dramma storico introspettivo, realizzato
con stile sontuoso e con fulgida magnificenza visiva da Zurlini, che è riuscito
nell’impresa, ritenuta da molti impossibile, di tradurre in (splendide)
immagini il romanzo omonimo di Dino Buzzati. Le principali difficoltà di
adattamento risiedono nella dimensione atemporale e storicamente indefinibile
in cui Buzzati colloca la vicenda, che vuol essere un apologo austero, con
risvolti allegorici, dell’attesa dell’evento fatale, della routine che diventa
il motivo stesso della vita, fino a generare, nell’uomo, una dimensione
psicologica che diventa una sorta di limbo fantastico, dove è possibile “fuggire”
dal tempo. Zurlini sceglie di ambientare la storia al tempo dell’impero
austroungarico ed utilizza lo splendido scenario esotico della fortezza Barn,
nel sud dell’Iraq, fotografandolo con tale eleganza formale da rendere il film
un’esperienza visiva magica ed indimenticabile. Rimanendo assolutamente fedele
al senso del testo ispiratore (l’attesa è il senso della vita e, tramite essa,
ci si consuma nella malinconia), il regista bolognese realizza un affresco
magnifico, affascinante, potente, metafisico, di rigorosa analisi psicologica e
di ammirevole sobrietà diegetica, sospeso sullo stridente contrasto tra i
silenzi delle lunghe giornate vuote all’interno della guarnigione e l’immensità
degli spazi esterni al di là delle mura. L’intera pellicola intende essere una
metafora straniante della vita: una lunga attesa del nemico (la morte), la cui
idea stessa diventa il suo “alimento” principale in un paradossale, quanto
beffardo, ciclo esistenziale. Una menzione speciale va data all’intero cast,
straordinario e praticamente perfetto in tutti i suoi componenti: Jacques
Perrin, Vittorio Gassman, Giuliano Gemma, Philippe Noiret, Fernando Rey, Max
von Sydow, Jean-Louis Trintignant, Helmut Griem. E’ indubbiamente il miglior
film di Zurlini e anche l’ultimo della sua carriera. La colonna sonora è di
Ennio Morricone, che ha lavorato abilmente per sottrazione, in accordo allo
stile dell’opera, con delle musiche brevi ma pregnanti, cariche di personalità
nelle loro fugaci apparizioni. La principale differenza tra libro e film è nel
finale, che Zurlini ha reso più ambiguo ed amaro.
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