venerdì 4 marzo 2016

La classe operaia va in paradiso (La classe operaia va in paradiso, 1971) di Elio Petri

Ludovico Massa, detto “Lulù”, è un operaio metalmeccanico stakanovista, nelle grazie dei padroni per i suoi ritmi di lavoro instancabili. Il nostro è un convinto sostenitore del lavoro a cottimo, grazie al quale può permettersi di mantenere due famiglie e garantirsi i beni di consumo di cui non sa fare a meno. Ma quando un incidente sul lavoro gli fa perdere un dito, “Lulù” cambia completamente: si schiera con i colleghi scioperanti, entra in scontro con i padroni ed entra in uno stato di “follia” farneticante, vaneggiando l’esistenza di un paradiso per la classe operaia. Splendido “docu-dramma” di Petri che mette a fuoco, con realistico rigore, lucidità di analisi e caustico cipiglio, la condizione dei manovali nei duri anni delle lotte operaie, tra il 1966 ed il 1970. Il bersaglio dell’acre satira dell’autore è, in particolare, l’alienazione delle catene di montaggio, in cui i ritmi infernali per la massimizzazione dei profitti e la riduzione dei tempi di produzione finiscono per ridurre l’uomo ad un paranoico automa dissociato, in balia della società. Furioso nella messa in scena del rapporto uomo-macchina, polemico nel ritrarre le relazioni tra sindacati e movimenti di sinistra e allegorico nel tratteggiare la difficile convergenza tra le lotte studentesche e quelle operaie, questo tagliente apologo sociopolitico fu il primo film italiano che ebbe il “coraggio” di entrare in fabbrica, per offrircene una dettagliata panoramica dall’interno. Scomodo e beffardo, in accordo allo stile del regista, questa robusta epica del proletariato non è esente né da enfasi né da ridondanze e suscitò aspre polemiche alla sua uscita, specialmente da parte della sinistra italiana che accusò il regista di aver ritratto i sindacalisti come pavidi imbonitori e gli studenti come illusi sognatori, incapaci di un impegno sociale concreto. Il metodo critico utilizzato da Petri è conforme all’ideologia marxista, che teorizza un’analisi sociale che parta “dal basso”, ossia dalla forza lavoro, piuttosto che dagli intellettuali, la cui astrazione rischia di essere troppo distante dai bisogni reali del proletariato. La metamorfosi di “Lulù” diventa, pur nella sua iperbole, il simbolo grottesco della lotta di classe ed introduce nel film spruzzi di surrealismo fantastico, anch’essi tipici dell’estetica del grande regista romano. La fotografia grigia e “invernale” è perfetta per ritrarre gli ambienti e le tematiche di una storia “chiusa”, che si svolge tutta all’interno di una fabbrica, in cupi capannoni freddi e spartani, dove dominano i colori opachi e l’infernale rumore delle macchine induce un senso di claustrofobia. Nel cast svetta Gian Maria Volonté, come al solito straordinario trascinatore, affiancato da Salvo Randone e Mariangela Melato. Il sodalizio Petri-Volontè ci ha regalato opere memorabili, tra le più alte e importanti del cinema politico italiano. Un lascito artistico di inestimabile valore, oltre che una preziosa fotografia sociale di quegli anni turbolenti. Il film fu premiato con la Palma d’Oro al Festival di Cannes, ex aequo con Il caso Mattei di Francesco Rosi (sempre con Volonté magnifico protagonista). Quando il cinema italiano dominava la scena internazionale, per impegno civile e valore artistico. Le (belle) musiche sono di Ennio Morricone.

Voto:
voto: 4/5

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