Charlot
è alle prese con le nevi del Klondike per inseguire il miraggio dei cercatori
d’oro, che sperano di trovare pepite e ricchezza nelle terre selvagge. Affamato
e infreddolito deve condividere una squallida baracca sull’orlo di un burrone
con il grosso Giacomone che, in preda ai deliri della fame, lo scambia per un
pollo arrosto e cerca di mangiarlo. Ma i due diverranno presto amici,
accomunati dalla malasorte, e Charlot finirà per trovare l’amore di una ballerina
nel paese vicino. E, ben presto, anche la fortuna girerà dalla parte dei due
improbabili cercatori che, per caso, troveranno una miniera d’oro tra le rocce.
Capolavoro assoluto di Chaplin, opera capitale nella storia del cinema muto, ancora
oggi moderna per la sua capacità di descrivere la lotta per la sopravvivenza
(tema centrale della pellicola) attraverso una miriade di invenzioni surreali e
trovate visivamente geniali, sempre in bilico tra comico e tragico.
Straordinarie le ambientazioni, che reinventano l’Alaska in studio, pur senza
perdere in realismo e densità drammatica nell’esplicitazione di una natura
ostile, che determina il destino degli uomini con la sua forza incontrollabile.
E di fronte a questo fato l’uomo è inevitabilmente solo, in una battaglia
impari che potrà vincere solo grazie alla buona sorte. Chaplin ebbe l’idea del
film guardando delle diapositive d’epoca di uomini affranti dalla fatica,
impegnati nella corsa all’oro sui monti ostili del Klondike, tra Canada e Alaska.
La lavorazione fu però complicata da uno scandalo di natura sessuale, infatti
il regista allacciò una relazione con la giovane attrice protagonista, Lita
Grey, che rimase incinta durante le riprese. Chaplin si vide costretto a
sposare la donna per “riparare” allo scandalo e la dovette sostituire
frettolosamente con un’altra attrice, Georgia Hale, interrompendo la
lavorazione per un anno e mezzo. La densità compatta dell’opera si esplica
principalmente nei momenti più buffi, che poi sono anche quelli col maggior
retrogusto drammatico, in accordo allo stile dell’autore. Ne La febbre dell'oro Chaplin perviene ad
una completa maturità artistica, raggiungendo nuovi livelli di forza creativa
che si evidenziano nell’approfondimento del suo leggendario personaggio,
Charlot, che ci appare più sfumato, più sottile, quasi velato da un alone di
pessimismo, pur nella sua consueta tenerezza. Le scene della fame, parossistiche
nel loro goffo iperrealismo, sono di una durezza inusitata ed assolutamente
nuova per il cinema di Chaplin. Così le tragiche disavventure del suo vagabondo
diventano un’autentica parodia della vita e della carriera dell’autore,
perennemente in bilico tra successo e solitudine. Va anche menzionato il
sottotesto politico di quest’opera ben più complessa di quanto possa apparire
ad una visione superficiale: Chaplin non lesina la sua critica, nei toni
tipicamente indignati e umanitari che gli sono congeniali, al capitalismo, capace
di provocare una “febbre” che modifica le azioni degli uomini e le loro
interazioni. Lo stesso regista ha sempre dichiarato che la sua tristezza di
fondo era dovuta alla contraddizione intrinseca al suo personaggio, un povero
che lo ha fatto diventare ricco. E questo concetto è chiaramente presente in
questo film, anzi ne costituisce l’ossatura portante. Molte le sequenze
memorabili da citare: la danza dei panini durante il sogno, la capanna pendente
che scivola nel crepaccio, Charlot che “diventa” una gallina o che mangia la
sua scarpa coi lacci come fossero spaghetti. Nel 1942 il regista ha rieditato
il film aggiungendo una traccia musicale inedita, sostituendo le didascalie con
il suo commento vocale fuori campo e modificando anche il finale. Ma la versione
originale resta la migliore, perché il parlato posticcio danneggia la profonda
poesia intrinseca alle immagini nate mute. Fin dalla sua prima uscita fu un
enorme successo di pubblico e critica ed è rimasta una delle opere più celebri
ed acclamate dell’autore inglese, la quintessenza del cinema di Chaplin.
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